Facciamo una premessa molto scomoda: io ho detestato e detesto tuttora La La Land, cioè il film considerato dall'intero pianeta il "capolavoro" di Damien Chazelle.
Era il 2017. Ormai resto sveglia ad assistere alla Notte degli Oscar dal 2014. Di solito le cerimonie si svolgono con ordine e ben cadenzate da riti istituzionali. A parte lo schiaffo dell'anno scorso e qualche momento divertente o emozionante, come il selfie di Ellen DeGeneres o le esibizioni canore di Justin Timberlake e del duo Lady Gaga-Gary Cooper, nessuna premiazione è stata più memorabile di quella del 2017. Io e mia sorella avevamo passato tutta la sera a tifare contro La La Land, ma, una dopo l'altra, eravamo rassegnate a vedergli conquistare statuette su statuette. Tutto già scritto, nessuna sorpresa. E invece la sorpresa ci fu eccome. La storia ricorderà per sempre Warren Beatty che apre la busta e legge perplesso. Un breve momento di panico, poi Faye Dunaway lo invita a smettere di scherzare, ma il divo resta attonito e così le passa la busta. La Dunaway prende in mano la situazione e annuncia La La Land. La produzione e il cast si abbracciano e saltellano baldanzosi verso il palco: baci, lacrime, Jordan Horowitz sta ringraziando tutti. Ma qualcosa non va. Mentre è il turno di Marc Platt ai ringraziamenti, gli altri produttori aggrottano le sopracciglia e un addetto ai lavori comincia a controllare quelle buste rosse. Fred Berger non riesce a concludere i suoi ringraziamenti. C'è confusione e lo stesso Horowitz svela il colpo di scena e il contenuto della busta corretta: il vero vincitore è Moonlight e molto galantemente il produttore resta sul palco per consegnare personalmente la statuetta a Barry Jenkins, che abbraccia. Il nome nella busta che Beatty e Dunaway avevano in mano è in realtà quello di Emma Stone, già annunciata come vincitrice ormai da diverse decine di minuti. Il cast di Moonlight è sbalordito e si abbraccia stupefatto e io e mia sorella altrettanto! Il più bel plot twist della notte degli Oscar. Non che Moonlight ci piacesse di più, ma avevamo maggiore avversione per La La Land. Non è che non mi piace, si tratta di autentica, viscerale antipatia. Chissà da quanto tempo non restava così scioccato il pubblico a una serata dell'Academy. Da quando Benigni ha marciato sullo schienale delle sedie per salire sul palco a ritirare l'Oscar, probabilmente, o da quando ci è salita Sacheen Littlefeather al posto di Marlon Brando.
Procediamo con una seconda premessa: l'ultima fatica scritta e diretta da Damien Chazelle dura sicuramente troppo. Tre ore e dieci erano troppe già prima che ne cominciassi la visione. Qualunque film di quella durata è eccessivamente lungo, escludendo forse la trilogia de Il Signore degli Anelli, in cui il materiale è talmente tanto e il tono così epico che era difficile accorciarlo molto (anche se ne Le Due Torri si poteva e si doveva fare). Anche Avatar 2 è troppo lungo di almeno mezz'ora-quaranta minuti. Nel particolare caso di Babylon, inoltre, le recensioni, che ne hanno preceduto l'arrivo in Italia e che lo stroncavano in termini mica tanto gentili, facevano intendere che quelle tre ore e dieci minuti sarebbero pure state di sofferenza.
Così sono arrivata in sala un tardo pomeriggio (sconsiglio l'orario serale per una lunghezza così impegnativa) di un giorno feriale, quasi col patema d'animo all'idea di (non) affrontare un'impresa che sembrava titanica. Ma è andata meno peggio del previsto.
La storia si ambienta tra Anni Venti e Anni Trenta del secolo scorso a Hollywood, nel dorato ("ma non troppo" ci dice il film) mondo del cinema, precisamente tra gli ultimi fasti del cinema muto e i primi anni del sonoro. Il film inizia con i preparativi per una festa di proporzioni gigantesche a casa del più importante produttore di Hollywood, Don Wallach (che somiglia proprio tanto a Harvey Weinstein, fisicamente e nel timore che suscita la sua apparizione): alcol a fiumi, droghe a chili, musica, orge e la già famosa scena dell'elefante, che in un momento di eccessiva ansia evacua in primo piano. La scena, a mio parere, è anche riuscita e divertente, ma è già celebre per l'irriverenza della ripresa e il suo sottintendere che il bersaglio era la telecamera. Anche la sequenza della festa ha fatto parlare di sé, ma non mi è sembrata tanto esagerata, quanto poco verosimile, checché se ne possa dire degli Anni Venti. Trovo sia un peccato che si parli così tanto di queste prime due sequenze e molto meno di altro, perché sono entrambe poste prima del titolo del film, che è ancora tutto da vedersi.
Partiamo dai due comprimari di Diego Calva. Già The Artist trattò questo tema, storicamente corretto: molti attori versatili per la recitazione nei film muti, che erano venerati al punto di generare il fenomeno del divismo negli Anni Dieci e Venti, non erano altrettanto portati per la recitazione vocale o avevano voci sgraziate e finirono per non avere più il loro spazio nel cinema, cadendo in disgrazia. Se in The Artist questa storia è raccontata attraverso il personaggio di George Valentin, in Babylon invece vengono usati ben due personaggi e due linee narrative distinte per rappresentarla. Da una parte abbiamo Jack Conrad (Brad Pitt), che dovrebbe riprendere la storia di John Gilbert, con cui condivide un alto numero di divorzi e la fine della carriera dovuta al "miagolio" della voce. Dall'altra però non abbiamo la controparte che Bérénice Bejo era in The Artist, cioè l'attrice che nel sonoro fa carriera relegando la vecchia guardia nel dimenticatoio, ma abbiamo una seconda attrice di cui si descrive la discesa. Per la precisione, incontriamo Nellie Le Roy (Margot Robbie) all'inizio del film, quando ancora è una sconosciuta che fa innamorare il giovane Manny, legandolo per sempre alla sua figura e, in qualche modo, anche alla sua fulminea carriera. Nellie è infatti notata da una regista per il suo talento espressivo durante una sostituzione fortuita e sale rapidissimamente alla ribalta, ma i suoi eccessi e le difficoltà a lavorare nel sonoro la condurranno in modo altrettanto veloce a consumarsi e ad autodistruggersi. Per alcuni aspetti questo personaggio rimanda all'attrice Clara Bow, che ebbe però una carriera molto più brillante, recitando anche in Ali, il primo film a vincere il premio Oscar nella categoria Miglior Produzione (che è divenuta poi Miglior Film) nel 1929, anno in cui fu assegnato per la prima e ultima volta anche l'Oscar alla Miglior Produzione Artistica ad Aurora di Murnau.
I due personaggi di Pitt e Robbie vogliono denunciare l'ipocrisia di Hollywood, che organizza baccanali e poi fa la morale, che lusinga e poi dimentica ciò che diventa troppo vecchio o imbarazzante, mentre ne succhia l'anima finché la gallina fa le uova d'oro. Questo aspetto di sfruttamento si legge anche negli altri due personaggi a cui, però, il film dà il compito principale di rappresentare il razzismo imperante nei vertici Hollywoodiani. Chi non è nato bianco e benestante non sarà mai davvero accettato: sarà usato e poi nascosto o gettato.
Così è per Lady Fay Zhu (Li Jun Li), personaggio che ha l'ingrato compito di rappresentare due minoranze: la provenienza da una famiglia cinese di commercianti e l'orientamento sessuale lesbico. Fay Zhu sarebbe ispirata in parte a Anna May Wong e in (minima) parte a Marlene Dietrich, ma solo in una scena indossa abiti maschili come feceva, a volte, la Dietrich. Per ottimizzare il numero di personaggi, si condensa in lei anche il ruolo di scrittrice di didascalie, che diventano obsolete nei film sonori, rendendo superfluo quel tipo di lavoro.
Il razzismo ha modo di essere rappresentato anche attraverso il personaggio di Sidney Palmer (Jovan Adepo), quando una branca di produzione si specializza in film con attori di colore e recluta a tal scopo questo trombettista jazz. Palmer però incarna anche qualcos'altro, strettamente connesso alla libertà del suo stile musicale, che gli consentirà un destino più fortunato degli altri personaggi.
Questi quattro attori, la cui scrittura non mi soddisfa del tutto perché sono più ruoli che personaggi, sono uniti nello scopo di denunciare il marcio di Hollywood, ma al contempo questa denuncia è contraddetta dal loro essere infatuati dal cinema, dal set. In particolare il personaggio di Brad Pitt (e nella parte iniziale del film lo fanno anche Manny e Nellie) a più riprese proclama la grandezza del cinema, la sua importanza per gli spettatori, la pubblica utilità dell'attore. Più didascalico di così non credo potessero scriverlo.
Ultimo ruolo-personaggio molto strano perché (anche lei) doveva condensare più ruoli in uno, è quello dell'opinionista Elinor St. John (Jean Smart). A tratti appresenta la morale imperante, aiuta a un certo punto Nellie come un Pigmalione, a tratti raffigura l'origine del gossip e incarna la stampa che fa e disfà, che crea il mito del divo, come la figura di Elinor Glyn ha fatto con Rodolfo Valentino o Clara Bow, ma che può anche affondare il suo stesso prodotto. Verso la fine del film il suo personaggio avrà la sua parte di dialoghi didascalici sulla sua categoria e su quella degli attori.
Le recitazioni del film, compresa quella di Tobey McGuire (del cui personaggio non posso raccontare niente, a differenza di quelli ispirati a biografie vere), sono una delle parti più convincenti del film. Penso soprattutto all'interpretazione di Margot Robbie, che ho trovato strepitosa. Considerando la premiazione come miglior attrice di Emma Stone proprio per l'altro film di Chazelle, in cui aveva anche una scena molto simile a quella girata in Babylon (autocitazione!), o nel caso del 2017 sono stati troppo generosi, o quest'anno non è stato reso il giusto merito alla Robbie, che ho trovato superiore alla Stone sulle due performance in questione. Margot Robbie non ha ricevuto nessuna candidatura ai Premi Oscar di quest'anno, ma l'aveva ricevuta ai Golden Globes come migliore attrice nella categoria Musical/Comedy. Nella stessa categoria era stato nominata l'interpretazione come miglior attore di Diego Calva, che non avevo mai visto recitare, ma che mi è piaciuto moltissimo. Anche Brad Pitt aveva ricevuto una nomination ai Golden Globes come attore non protagonista.
Il film però non è stato escluso dalla corsa agli Oscar, ricevendo tre nomination: ai migliori costumi (di Mary Zophres), che francamente trovo discutibile, alla migliore scenografia (di Anthony Carlino e Florencia Martin), che ci può stare, e alla colonna sonora, che è probabilmente la cosa migliore del film, sempre azzeccata rispetto al contesto e molto scoppiettante. Justin Hurwitz, già due volte premio Oscar per La La Land -colonna sonora e canzone, che avevano vinto proprio tutto dai Golden Globes al BAFTA-, ha già vinto il Golden Globe e si prepara a raggiungere un probabile "triplete" all'Academy.
Fin qui ho potuto parlare di tutto ciò che si può definire bianco o nero nel film, ma le cose si fanno dure su tutto quello che invece ha diviso la critica.
In primis, il ritmo. Avevo letto che era molto discontinuo, con un primo tempo molto più veloce del secondo tempo, dove c'era un crollo netto. A me invece il ritmo è apparso sì discontinuo, ma senza differenze così significative sancite dall'intervallo: il ritmo per me è stato molto lento, con sequenze anche noiose fin da subito, per esempio quando compare Nellie, alternate a cinque-sei sequenze frenetiche, distribuite nel corso del film (tre-quattro nella prima parte e due nella seconda, circa), di cui un paio al cardiopalma. Ma sono un'alterazione momentanea di una calma altrimenti piatta, non immobile e insopportabile, ma che si è presa tutto il tempo (troppo, sempre quella buona mezz'ora di troppo) per raccontarti le vicende.
Lo stesso discorso può essere fatto per il montaggio. Ci sono due sequenze, una poco dopo il titolo del film e quella finale, in cui il montaggio è ultra frenetico, quasi nevrotico per la velocità con cui si susseguono i tagli, ma con risultati, per me, totalmente opposti.
Nel primo caso abbiamo una lunga sequenza che si svolge dopo la festa, che rappresenta il cambio di rotta per Manny e Nellie, una svolta nelle loro vite: entrambi approdano su un set cinematografico e sono fagocitati dalla sua immensità e dalla sua frenesia. In questo caso quel montaggio veloce quasi da far girare la testa ci stava, contribuiva a rendere benissimo il senso di quella sequenza. Le scene parlavano, raccontavano senza bisogno di tutti i sottotitoli che sono stati messi nei dialoghi di Pitt. Quella sequenza vale il prezzo del biglietto e le tre ore, altrimenti mal spese, di quel pomeriggio: è stata una delle cose più belle visivamente che ho trovato al cinema ultimamente. Ne ero entusiasta.
Al contrario questo stesso tipo di montaggio sulla sequenza finale che inanella spezzoni di questa stessa pellicola (autocitazione al quadrato!), spezzoni di altre opere cinematografiche famose, in ordine secondo il programma delle lezioni di storia del cinema, e un trip di colori psichedelici che, okay, mi vuoi far vedere che tingono la pellicola come si usava fare agli albori, m'ha fatto storcere il naso. Questa sequenza, mezza citazione di 2001: Odissea nello spazio, per me non aveva senso, in quanto ennesimo tributo che Chazelle offre al cinema, ancora didascalico da morire. Aveva già tentato di omaggiare i film muti e anche un po' di Tarantino, ma non aveva ancora citato a memoria gli appunti dell'Università. Se Chazelle avesse cassato questo ultimo tributo, chiudendo dopo una delle scene clou del duo Manny-Nellie, al grido di "stop!" avrebbe celebrato lo stesso la settima arte, ma con un risvolto a sorpresa e un risultato meta-cinematografico, ma i finali del regista devono rendere insoddisfatto lo spettatore o non se ne fa niente.
La regia a me è anche piaciuta: ci sono tagli diversi, c'è il piano sequenza, c'è la ruffianata simpatica dell'elefante. Potremmo dire che è un esercizio di stile (e visti gli intenti palesi di Chazelle, probabilmente è vero) ed è per questo probabilmente che non è stata inclusa nella cinquina per gli Oscar. Spielberg è stato più pulito e onesto e mi piacerebbe molto che la sua regia vincesse l'Oscar, la preferisco senza dubbio a questa, ma è comunque una regia che si è data da fare, che ha voluto dire qualcosa e farlo in modo ricercato. Se Chazelle merita o meno (per me) di stare negli esclusi ancora non posso dirlo, poiché mi mancano ancora molti dei film in lizza nella categoria (sia per l'Academy, sia per i Globes). Sarà una lunga maratona di qui al 12 marzo.
Il problema di questo film è la scrittura, tanto per cambiare, visto non lo dicevo da un paio di recensioni. M'ero abituata troppo male con Living. La sceneggiatura mette troppa carne al fuoco, ma è approssimativa. Alcuni dialoghi sono odiosi da quanto sono banali e faciloni. La deriva della storia è ovvia da subito, anche se a un certo punto la storia diventa un po' gangster-movie a caso, per dare la svolta finale e per inserire elementi di mostruosità che non comparivano abbastanza nella scena della festa. Si potevano concentrare questi aspetti insieme invece che in due scene messe proprio in cima e in fondo. Sommando il tempo che si sarebbe risparmiato eliminando le lungaggini e i dialoghi scritti con lo scalpello, forse si poteva eliminare quasi un'ora intera.
Ma quindi...m'è piaciuto? Nonostante ci stia pensando da cinque giorni, non trovo una risposta. Non è un brutto film, magari un po' noioso, ma ho davvero visto di peggio. Di sicuro non è neanche un capolavoro.
Cosa non mi è piaciuto: La storia non mi piace. Scritto coi piedi lo è e Chazelle è antipatico almeno quanto in La La Land. La sequenza finale m'ha fatto perdere la pazienza. Il ritmo è tendenzialmente noioso, salvo alcuni scatti concitati, raggiungendo il massimo della discontinuità.
Cosa mi è piaciuto: D'altro canto visivamente è molto bello e ho apprezzato in alcuni momenti sia il montaggio, sia la regia (ma non sempre). Ho adorato la sequenza sul set e mi è piaciuta molto la scena in cui Manny assiste alle reazioni del pubblico al primo film sonoro. Margot Robbie e Diego Calva mi sono piaciuti moltissimo e la colonna sonora è una bomba.
Giudizio: ⭐⭐⭐1/2