lunedì 26 febbraio 2024

Alla scoperta del cinema finlandese: Foglie al vento di Aki Kaurismäki

 Il mio primo approccio al cinema finlandese è stato molto curioso: si tratta del film di Aki Kaurismäki, Foglie al vento, premio della giuria a Cannes e candidato a miglior film straniero ai Golden Globes, dove è stata anche candidata l'attrice protagonista, Alma Pöysti.


La storia si ambienta in una Helsinki dei giorni nostri (alla radio trasmettono le notizie sulla guerra in Ucraina), in cui tutti i personaggi sono inespressivi, apparentemente impassibili a qualunque stimolo (un po' come quelli di Wes Anderson). L'incertezza e la povertà permeano le vite di tutti: i lavori sono precari, poco pagati e trovarsi dove stare è difficile. Gli unici svaghi sono il cinema e il pub ed è qua che si conoscono i due protagonisti di questa commedia romantica (che, però, non lo è del tutto). Ansa salta da un lavoro all'altro, cercando di sopravvivere in modo dignitoso in questo mondo-parodia, in cui al supermercato il cibo scaduto si butta e non si può regalare ai bisognosi; Holappa è un operaio alcolizzato, che continua a farsi cacciare per questa sua dipendenza. Tuttavia i due si notano e provano a frequentarsi, ma tra loro si frappongono costantemente ogni genere di ostacoli. Riusciranno i nostri eroi...?

La commedia è brillante, ironica, ma al contempo romantica. In meno di un'ora e mezza e con grande leggerezza, pur senza dimenticarsi di farci tifare per le imprese sentimentali dei nostri protagonisti (anche se in modo tutt'altro che passionale), ci consegna il ritratto di una società fatta di ingiustizie e difficoltà, ma anche di alleanze tra amici e di atti di gentilezza verso il prossimo.

La regia è sintetica e precisa e il cast l'ho trovato estremamente bravo per recitare con quell'impostazione mimica di insensibilità e indifferenza per tutto il tempo. La comicità è soprattutto legata alle situazioni che si generano, ma non è travolgente.

Se devo trovargli un difetto, che, in realtà, non è tale, non si tratta di un film irruento e trascinante: è molto composto. C'è anche un'altra cosa che non mi è andata giù: tutte quelle cicche di sigarette e quei fiammiferi, gettati a terra con grande naturalezza (una trascuratezza nei messaggi, che oggi non dovrebbe essere più accettabile, sebbene la scena contribuisse a restituire la trasandatezza di Holappa).

Giudizio: una commedia lieve e deliziosa ⭐⭐⭐1/2 

domenica 18 febbraio 2024

Waiting Academy Awards: Povere Creature

 Acclamato al Festival di Venezia, dove gli è stato tributato il Leone d'Oro, Povere creature è l'8° film di Yorgos Lanthimos, adattato da Tony McNamara dall'omonimo libro di Alasdair Gray (che a questo punto dovrò proprio leggere).

Il film ha undici candidature agli Academy Awards (film, regia, attrice protagonista e attore non protagonista, sebbene, secondo me, quello sbagliato, montaggio, fotografia, scenografia, costumi, trucco&parrucco, sceneggiatura non originale, colonna sonora) e ha già vinto due Golden Globes (migliore commedia e migliore attrice), per i quali aveva sette candidature; altre dieci ne ha ai BAFTA.


Bella Baxter è la Creatura di un novello Frankenstein, il dottor Godwin Baxter (Willem Dafoe), chirurgo e scienziato, affezionato a lei come un padre, capace, però, di lasciarla andare nel mondo, sia a fini sperimentali, sia cogliendo l'esigenza della vita che ha creato.

Bella, infatti, inizialmente ha una mente non formata, che evolverà nel corso della sua storia, man mano che esplora il mondo: all'inizio si tratta del limitato ambiente del padre, la casa e il laboratorio; ma presto non si accontenta di quanto ha a disposizione. I pochi stimoli iniziali non fanno che aumentare la curiosità della creatura, che coglie al volo l'opportunità di fuggire assieme a un mascalzone, Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), fuori dal suo ambiente domestico.

Strutturato in capitoletti, il film affronta diverse situazioni, facendo sempre crescere in ciascuno Bella nei suoi diversi aspetti. L'opera riesce, infatti, a trattare molti temi diversi, riguardo la necessità di scoprire e l'evoluzione di un individuo, tra alte aspirazioni ed esigenze materiali, dal bisogno di elevarsi spiritualmente con la filosofia o di fare del bene al prossimo, a quello più terreno di procurarsi da vivere, passando, frequentemente, per quello di conoscersi e soddisfarsi dal punto di vista sessuale.

"Tutto ha a che fare con il sesso, tranne il sesso. Il sesso ha a che fare con il potere."

Ho letto che questo continuo riferimento non è stato universalmente apprezzato. A me, personalmente, non ha pesato (cosa che invece fa di solito, quando è gratuito), poiché è ben contestualizzato e ha il suo perché, dovuto all'assenza di indottrinamenti di sorta sul personaggio di Bella. Poiché non ha sovrastrutture, l'unico modo attraverso il quale conosce la sessualità, è l'esperienza: quello che sente al riguardo e ciò che sperimenta, prima da sola e poi con altri. La libertà priva di tabù sul sesso la conduce a esserlo anche in altri ambiti; la conduce a scoprire sé stessa e il mondo, prima attraverso i sensi, appunto, che a livello cerebrale, poi a rendersi indipendente, ad avere potere. Le sensazioni che conosce le chiedono di assecondarle, di non farsi limitare dalle imposizioni che prova a metterle Wedderburn o chicchessia. Tutte le sue esperienze la rendono completamente formata, consapevole, libera, realizzata e, dunque, felice.

La prospettiva è principalmente femminile, perché il tema di rendersi indipendenti in un mondo patriarcale è attuale, ma resta comunque universale. Ogni individuo ha le stesse esigenze di Bella e si scontra con i tabù della buona società, come viene definita nel film, per cui certe cose non si fanno, anche per coloro che dichiarano che la società, con le sue norme, è castrante. Il mondo del film non è né un presente, né un passato, né un futuro; non è nemmeno una distopia, poiché raffigura una società vittoriana per la gran parte della pellicola, una società conformista agli ideali di quell'epoca. Eppure Bella, vestita in pantaloncini o, comunque, con capi di vestiario (bellissimi e coloratissimi) che non avrebbero potuto esistere allora, non suscita il mormorio della folla, come se fosse perfettamente normale che sia vestita così, sebbene a esserlo sia solo lei. Anche questo la connota diversamente da tutti: lei è unica, speciale, come dirà Max McCandles (Ramy Youssef), l'apprendista di Goodwin.

Libera dalle convenzioni e dalle morali del suo tempo, poiché non ha ricevuto alcuna istruzione (il dottor Baxter la osserva, ma non le fornisce un'educazione attiva), può apprendere secondo istinto e necessità. Qui compare l'unico neo che ho rilevato nel film, che per il resto, per me, non presenta difetti: qualche imprecisione nella scrittura. Non riesco, infatti, a spiegarmi come Bella abbia imparato a leggere. Si passa dall'articolazione approssimativa delle frasi alla lettura della filosofia. Inoltre, in alcuni momenti il personaggio esprime pensieri complessi in un linguaggio articolato, ricco e corretto, mentre in istanti successivi regredisce alla pronuncia di parole elementari e scollegate. Sono due diverse componenti del suo essere a cui dà differente spazio in momenti e contesti diversi, oppure non era intenzionale? Mi sembra che sia un difetto troppo evidente, per non essere voluto, poiché per il resto l'evoluzione di Bella è abbastanza lineare, anche se con qualche salto iniziale, probabilmente necessario a coprire lunghi intervalli. Credo che cercherò queste risposte nel romanzo originale.

Dal punto di vista estetico, il film è impeccabile e così la regia: costumi e scenografie sono originali, colorati, bellissimi; la fotografia è luminosa e pulita.

Dal punto di vista attoriale, ritengo che Emma Stone sia stata perfetta, molto al di sopra di La La Land, per la cui premiazione, all'epoca, non fui così d'accordo. Non avrei molti dubbi sulla sua vittoria agli Oscar. Deve interpretare una bambina, una ragazza ingenua e disincantata, ma anche una persona sicura di sé e matura, quasi cinica a un certo punto: le varie trasformazioni di Bella Baxter.

Anche le parti di Mark Ruffalo e Willem Dafoe sono molto apprezzabili, personalmente soprattutto la seconda, ma anche Ruffalo ha un personaggio che gli permette di sbizzarrirsi (e lo fa). Al contrario, quello di Dafoe è un originale, a suo modo coraggioso e cinico, ma anche sentimentale e corretto. Tanto è scorretto, possessivo e meschino è Duncan Wedderburn, tanto Max McCandles è retto, gentile e aperto di mente.

Giudizio: andate a vederlo e riempitevi gli occhi ⭐⭐⭐⭐ 1/2

venerdì 9 febbraio 2024

Un film terapeutico: Perfect days

 Il quasi ottantenne Wim Wenders, del cui cinema mi professo ignorante, con grande senso di colpa e dispiacere, torna alla regia di un film di produzione nipponica, scritto dallo stesso regista e da Takuma Takasaki: Perfect days.

Si tratta di un film dalla scrittura semplice, con un meccanismo di narrazione e una ricerca di significato che, sospetto, prenda ispirazione da concetti quali la mindfulness e, forse, le correnti buddiste zen.

"Un'altra volta è un'altra volta. Adesso è adesso."


Hirayama (Kōji Yakusho) tutti i giorni si sveglia al suono dell'uomo che in strada spazza le foglie, piega il suo fouton, indossa la tuta da lavoro, si prende cura delle sue piantine, si lava i denti, si fa la barba, esce di casa, prende un caffè in lattina dal distributore proprio davanti a casa, sceglie l'audiocassetta con cui accompagnerà il viaggio in auto e si reca a lavoro. Fa le pulizie per la Tokyo Public Toilet e prende il suo lavoro in modo professionale, aderendo ai principi (per noi tanto distanti) per cui qualunque cosa fai la devi fare al tuo meglio e come se fosse una missione (un ikigai), in cui migliorare ogni giorno, cercando di spingersi sempre un passettino oltre il tuo massimo. Ecco, Hirayama ci mette del suo: si crea degli strumenti da solo per fare le cose al meglio e compie il suo dovere come una vocazione, perfino quando viene lasciato solo a coprire i turni. A differenza del collega della generazione più giovane, che gli domanda perché metterci tanto impegno, se saranno sporcati nuovamente di lì a poco, non trascura i dettagli, non cerca di sbrigarsi, tirando un po' via, per rispetto prima verso sé stesso, che verso il pubblico.

All'ora di pranzo, l'uomo si siede vicino a un tempio, una bella zona verde a Tokyo, dove mangia il suo tramezzino. Hirayama torna poi a casa, inforca la sua bicicletta e va a lavarsi ai bagni pubblica, a fare qualche giro, a cena e poi prima di dormire, legge un po' del suo libro. Non usa il cellulare, se non per comunicare, è estraneo al mondo di internet. Le sue giornate riprendono quasi invariate, in un ciclo sereno e tranquillo, anche se, ovviamente, non è esattamente così. La domenica porta a sviluppare un rotolino di pellicola, seleziona le foto che gli sono riuscite bene, che gli trasmettono qualcosa; compra un nuovo libro da leggere la settimana successiva; cena in un posticino speciale.

Hirayama si porta dietro ovunque una macchina fotografica e, costantemente, presta attenzione a cosa ha intorno, per coglierne la bellezza. Così succede che ogni parte della sua giornata diventa bella da vivere e ha un suo perché. Ogni adesso è bello da vivere.

Ci sono personaggi, incontri ed eventi imprevisti che si inseriscono in questa routine, proprio come è per le nostre vite. Anche i nostri quotidiani si ripetono analoghi, ma non sono mai gli stessi.

Questo film mi ha dato tanto. Avrei bisogno di rivederlo in loop per sempre, soprattutto nel periodo in cui mi trovo adesso (ci sto provando ad applicare la filosofia-Hirayama, ci sto provando davvero e mi serve). Nella sua ripetitività semplice, nella sua serena lentezza, ambizione a cui tendo ormai da qualche anno, mi sono sentita bene: mi è arrivato Hirayama, il suo stile di vita, la ricerca dei suoi ideali, che condivido, anche se non sono i miei e sono tanto lontani dalla società in cui ci troviamo.

Eppure non sarebbe impossibile: anche lui vive nella super tecnologica e al passo col tempo Tokyo (che ha le pareti dei bagni trasparenti che si oscurano alla chiusura), ma lui vive nel suo mondo e, a giudicare da quanto rivelato, per sua volontà.

Mi è piaciuto tutto di questo film: la colonna sonora fatta di pezzi storici, la recitazione del protagonista (che per molte scene è stand alone, con minimi interventi delle altre comparse, e spesso è muto), l'averlo reso un uomo che sento vivo e vero, la regia, la fotografia. Si sente un goccio la ripetitività, che, però, è il suo plus, la sua piacevolezza (una sorta di mantra), ma il film è anche breve (due ore secche) e, dunque, ho non ho avvertito la noia.

Ho una sola cosa da dire, ma non è in negativo. Questo è un film diverso, che ha il suo senso pieno e compiuto così e mi piace da impazzire. Lo riguarderei subito una seconda e una terza volta. Tuttavia, per quanto riguarda la corsa all'oscar come film internazionale, gli preferisco ancora Io capitano. Trovo che dovrebbe essere premiato soprattutto per una sceneggiatura molto più complessa e, a suo modo, profonda, ricalcando il viaggio vogleriano dell'eroe.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐

martedì 6 febbraio 2024

Waiting Academy Awards: Maestro di Bradley Cooper

 Bradley Cooper torna una seconda volta alla regia nel lungometraggio Netflix Maestro, dopo A star is born. Il film è candidato a sette premi Oscar, tra cui miglior film, sceneggiatura originale e sonoro.


Si tratta della storia del maestro d'orchestra e compositore Leonard Bernstein (interpretato sempre da Cooper), dagli esordi giovanili all'età matura, passando per il suo matrimonio con l'attrice Felicia Montealegre (Carey Mulligan), la crisi di questo per le relazioni extraconiugali omosessuali e, infine, il lutto per la morte della moglie, che si ammala di cancro.

Questo film, che dura la bellezza di due ore e dieci minuti, non mi è piaciuto granché e mi ha annoiato tantissimo nella sua parte centrale (ancora una volta fatta di eccessi, alcol, sesso, etc, tutte cose di cui sono stufa).

La parte iniziale l'avevo gradita e mi sono divertita molto nella scena-musical che descrive l'indole di Bernstein nella composizione (di musiche per teatro, ma anche per Fronte del porto o West Side Story), malgrado fosse spinto verso la direzione: credo sia la parte che ho preferito anche per la tematica. Il maestro sentiva di non poter scegliere tra le molte anime che possedeva e provò a portare avanti tutti i suoi impegni e le sue inclinazioni per tutta la vita. È stata bella anche l'introduzione nelle vicende in medias res, con la chiamata all'ultimo per sostituire un collega, evento che lo farà scoprire proprio come direttore d'orchestra, e quell'ingresso nella sala concerti. Questa capacità di concentrare gli eventi scopare dopo questa prima parte e cambia totalmente il ritmo.

Il personaggio di Bernstein è anche scritto bene, è rappresentato in tutte le sfaccettature positive e negative, rendendolo dunque sì grigio, ma anche reale, tanto che, per oltre la metà del tempo, lo si odia un sacco, egoista e incurante dei sentimenti altrui, per quanto sotto pressione. Anche nella somiglianza (che dalla cancel colture in poi è considerata offensiva) i truccatori (altra nomination) hanno fatto un incredibile lavoro.

L'acme del film è la sequenza lunghissima in cui dirige la London Symphony Orchestra per sei minuti, performance a cui pare abbia dedicato sei anni di preparazione. Per quanto bella e per quanto Cooper abbia recitato benissimo (è poi arrivata la nomination a Golden Globe e Oscar, come del resto per Mulligan), io non sono stata così felice della sua durata.

Anche la terza parte del film mi è piaciuta abbastanza, affrontando la malattia di Felicia Montealegre, concedendo una grade opportunità (colta) a Mulligan e facendomi piangere come una vite tagliata per tutta la sua durata (argomento trigger). Le due performance attoriali mi sono piaciute, ma non al punto di considerarle favorite nella vittoria a marzo o di parteggiare per loro.

La lunghezza, però, complessiva e il tedio intermedio, fatto inizialmente di dialoghi pacati, che poi esplodono in vere liti (anche perché essere trattate così, proprio no!), non le ho proprio rette.

A essere sincera, la cosa che ho preferito di questo film è la sua fotografia, soprattutto nel bianco e nero, sempre curata nelle inquadrature e pulita. Anche Matthew Libatique si è preso la sua nomination, che è la terza, dopo Il cigno nero e (proprio) A star is born.

Giudizio: ⭐⭐⭐

lunedì 5 febbraio 2024

Waiting Academy Awards: ho recuperato Nimona

 Sabato sera in famiglia abbiamo guardato Nimona, su Netflix: il film d'animazione, uscito già nell'estate, dei registi Nick Bruno e Troy Quane. Si tratta di un adattamento da un fumetto di ND Stevenson, prodotto da Annapurna Pictures.


Si tratta di una storia ambientata in un mondo in cui un'antica eroina, Gloreth, sconfisse un temibile mostro, mille anni prima. Da allora gli abitanti vivono in una città entro mura difensive, che la separano dal pericoloso mondo esterno, popolato da chissà quali incubi, protetta dai cavalieri dell'"Ente", tutti discendenti di Gloreth. Cosa potrà mai andare storto in un posto in cui la paura del "là fuori" aleggia sugli abitanti e su chi li protegge?

Infatti, la storia vera e propria si apre quando sta per diventare cavaliere, per la prima volta dopo mille anni, un uomo che non è discendente di Gloreth, Ballister. Per una serie di eventi, che finiscono per accusare proprio Ballister, questo scappa e si unisce alla mutaforma Nimona: quale sarà il loro piano per dimostrare che Ballister è innocente? E il mostro, come ci insegna Il Gobbo di Notre Dame, è fuori o è dentro (in tutti i sensi)?

La storia ci è piaciuta tantissimo e in famiglia è pressoché un evento raro accontentare tutti e tre. Per quanto mi riguarda, la cosa ha del miracoloso, perché all'inizio non mi stava piacendo e mi sono ricreduta.

Parliamo prima di quelli che sono i difetti, secondo me, così ci leviamo il pensiero e passiamo alle cose belle.

1) La scrittura è immatura. La storia è molto originale e il plot twist iniziale te lo fa capire subito, ma inizialmente ho storto parecchio il naso su tre cose. 

La prima sono le battute. Alcune per me sono proprio bruttine e non mi fanno ridere; dopo l'avvio, si riprendono un po'. 

La seconda è come sono dipinti i "cattivi": quando nelle primissime scene i veri cavalieri fanno i bulletti con Ballister, mi si è accapponata la pelle per la faciloneria con cui sono stati descritti, completamente aderenti a un cliché. La caratterizzazione degli antagonisti segue questo andamento anche fino alla fine. La terza, che segue e chiude questo argomento, è che scopri subito il cattivo, che ha una discreta caratterizzazione iniziale, ma sul finale si rovina per aderire al messaggio che il film vuole dare, ma diventando molto forzato, poiché, per come è andata la vicenda, è assurdo che persegua nelle sue azioni e nelle sue idee così ottusamente.

2) I disegni non mi facevano impazzire, soprattutto all'inizio. Li ho un po' rivalutati e in alcune scene mi sono piaciuti anche parecchio, ma non sono del tutto soddisfatta. Il design di Nimona non mi piace proprio. Questi, comunque, sono gusti personali.

Finiti i difetti, per me, del film, posso parlare di quel che mi è piaciuto. La storia, a parte per quanto già evidenziato, è ben scritta e mi ha trascinato ed emozionata. Ha anche diversi colpi di scena che sorprendono. Le scene d'azione, invece, oscillano un po'. Sempre nella famigerata parte iniziale, ho trovato i ritmi fin troppo veloci, direi improvvisi; al contrario, da metà film in poi, li ho trovati molto più azzeccati e mi sono goduta le scene molto di più. L'animazione se la cava meglio, a parer mio.

Trovo, comunque, che la cosa più riuscita sia stata la capacità della scrittura di trasmettere dei messaggi molto belli, senza renderli troppo didascalici e non sto parlando di inclusione soltanto.

Mi piace tantissimo che la storia abbia mostrato le conseguenze della paura e della disinformazione (vogliamo chiamarla ignoranza?), che stanno alla base della discriminazione. Risuona moltissimo quanto ha scritto Tahar Ben Jelloun in Il razzismo spiegato a mia figlia. E mi piace moltissimo il messaggio che porta Nimona stessa in ogni sua scena: io sono me stessa, anche se cambio, anche se non mi identifichi bene e ti confondo. Io non posso essere definita in un modo unico, perché mi sminuirebbe; farebbe il contrario, non mi comprenderebbe mai per intero, quindi non pretendere di includermi in una categoria, perché è troppo poco e nessuna parola mi definisce del tutto. Questo messaggio si applica a molti contesti della nostra esistenza (non solo ai più evidenti temi sulla fluidità), mi piace tantissimo e sono contenta che un film lo abbia trattato in questo modo, comprensibile, ma non nozionistico.

"Ti vedono solo in un modo, per quanto tu possa provarci."

A questo punto ho moltissima voglia di leggermi l'opera originale, che è stata pubblicata in un volume da Bao Publishing, anche perché sospetto che potrebbe essere superiore al film.

Il film è stato nominato agli Oscar nella categoria animazione, ma dovrà vedersela non tanto con Elemental, quanto con Spiderman: Across the Spiderverse e, soprattutto, con l'ultimo film di Miyazaki, Il ragazzo e l'airone. Devo ancora vedere Robot Dreams, che, dunque, non so quanto forte possa essere come avversario.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐