mercoledì 27 marzo 2024

I sequel non andrebbero fatti solo per guadagnarci su: Kong Fu Panda 4

 Naturalmente l'idea che suggerisco nel titolo è una priorità per il pubblico, ma un'azienda come la Dreamworks mi risponderebbe che, invece, è proprio quello lo scopo con cui si fanno i film. I sequel, in particolare, servono proprio per fare soldi facili (Kong Fu Panda 4, poi, ha avuto un budget pure modesto, 85 milioni di dollari), trainati dal successo dei capitoli precedenti e con la prospettiva di una larga vendita di merchandise.

Basta il nome per portare al botteghino il pubblico. In questo caso c'era persino qualcosa di più, perché la trilogia di film che era arrivata in sala tra il 2008 e il 2016 era perfetta, azzeccatissima in ogni capitolo, studiata nei particolari e di altissimo livello per storia e animazione.

Vero è che il budget era maggiore di 45, 65 e 60 milioni, rispettivamente, per il primo, secondo e penultimo capitolo. Non era, tuttavia, questo a intimorirmi; avrebbe dovuto. Brutti segnali giungevano dalla casa di produzione, fin dall'ottobre 2023, quando si diffuse la notizia che Dreamworks licenziava il 4% del proprio personale (e a oggi news anticipano che stiano per licenziare un altro centinaio di dipendenti). Non aver investito (verosimilmente) in animatori e doppiatori ha, per esempio, portato a eliminare dalla storia i Cinque Cicloni, che compaiono nei titoli di coda, esclusivamente senza parlare. Questo è un altro gran brutto segno.

Io un po' di timore lo avevo soprattutto perché la storia di Po mi pareva già conclusa e mi domandavo come avrebbero potuto fare di più, giustificando una nuova pellicola. Ci poteva stare la ricerca di un successore, anche se prematuro: obiettivamente era la sola cosa che poteva seguire ai risultati raggiunti dal panda nei precedenti episodi. Il fatto che fossi restia a questa idea, come il Guerriero Dragone del resto, non era una motivazione sufficiente, però, per aspettarmi poco dal nuovo prodotto. Il budget avrebbe dovuto farmi capire che non c'era nessuna intenzione di dare lustro alla storia del protagonista e che non era per un'esigenza di completezza che si giungeva a produrre un quarto film.

Foto "di repertorio" da Gardaland, dove eravamo stati ad Halloween 2020

Che dire? Avrete già capito da questa introduzione che non sono soddisfatta di questo sequel (regia di Mike Mitchell e Stephanie Ma Stin.) e non solo per il minimo sforzo nell'animazione (ci sono pochi combattimenti, messi lì come compitino, per niente esaltanti e anche poco importanti - sono più da serie animata).

La storia, al solito, però è il punto più critico. Quando si devono ritirare fuori i cattivi dei capitoli precedenti già significa che le idee sono poche. Stavolta non solo solo poche, ma anche parecchio tirate per i capelli.

Maestro Shifu (che dispiacere che Eros Pagni, probabilmente a causa dell'età -84 anni-, abbia rinunciato a doppiarlo) comunica a un riluttantissimo Po che deve nominare il prossimo Guerriero Dragone. Nel mentre giunge la notizia del ritorno del primo cattivo della saga, Tai Lung. Ad avvertire Po che si tratta solo di una messa in scena è una piccola volpe, una ladra che si intrufola nel Palazzo di Giada, Zhen. Le sembianze dell'antico nemico sono, infatti, state assunte da una nuova cattiva, la Camaleonte. Zhen viene proprio da Juniper City, dove opera la Camaleonte ed è disposta ad accompagnare Po alla ricerca della nemica, senza sapere che sarà seguito dai suoi due papà, elementi comici della vicenda e anche aiutanti (fanno le veci dei Cicloni, insomma).

Shifu, invece, non segue Po e compare al panda solo nella sua mente, nella forma di consigliere (le classiche voci sulle spalle, sotto forma di angelo e demone).

Eliminando di fatto i compagni di lotta dei precedenti capitoli, l'animazione può concentrarsi su Po, Zhen, i papà -panda e oca- e la cattiva (oltre a una serie di comparse, tra cui un bradipo, doppiato da Ke Huy Quan). Si vedono i cattivi dei precedenti film, ma solo Tai Lung è doppiato.

Oltre alla pigrizia nella creazione del cattivo, che di fatto ricicla aspetti e mosse da quanto già creato nei precedenti capitoli (col classico entusiasmo di Po davanti a tutto quello che riconosce come Kong Fu - ma questo espediente l'hanno già usato negli altri film, quindi continua a mancare l'originalità), c'è un problema di credibilità, un enorme problema di credibilità. La Camaleonte vuole rubare il kong fu agli altri, perché non ha trovato nessuno disposto a insegnarglielo, perché era troppo piccola. In compenso è esperta di magia. Inoltre, tiene in scacco i cattivi della città con la minaccia di buttarli di sotto dalle scale.

1) Maestro Pollo e Mantide sono piccoli quanto e più di lei, eppure qualcuno gli ha insegnato il kong fu o, comunque, lo hanno imparato;

2) che razza di minaccia sarebbe? ma, soprattutto, se riesce a fare del male e a tenere il potere senza conoscere il kong fu, perché ci tiene tanto a ottenerlo - prenderlo, badiamo bene, non impararlo-?

A questo si aggiunge che Zhen sa il kong fu, o per lo meno sa battersi, senza maestri, tenendo testa a Po...allora non serve assolutamente a nulla padroneggiare tali tecniche?

Non c'è coerenza ed è un film trascurato, questo. C'è poco di tutto: la sceneggiatura si limita a inserire gli elementi necessari un po' alla Boris, ma senza che abbiano senso. Po, per esempio, dovrebbe diventare il Guardiano della Valle e sembra che accetti il suo nuovo status, ma la sua crescita non è molto costruita. Il plot twist che dovrebbe esserci, inoltre, è riciclato anch'esso e non sorprende.

L'unica cosa che resta di positivo sono le situazioni comiche, che, malgrado tutto, risultano divertenti, ma non è abbastanza.

Giudizio: ⭐⭐Questo film manca di cuore e non è la prima volta che viene detto di un prodotto di una major.

lunedì 18 marzo 2024

Il secondo capitolo di Dune è un film bellissimo

 Torna al cinema Denis Villeneuve e ci porta di nuovo ad Arrakis in Dune: parte due. Come il primo film, è co-scritto e diretto dal regista canadese. La storia è basata sulla saga di Frank Herbert, che si compone di sei libri.


Quando ho visto Dune: parte uno ancora non avevo (ri)aperto il blog, quindi non ho parlato del primo film, che, tutto sommato, mi era piaciuto. L'avevo trovato un filo lento, ma molto godibile e spettacolare. Il mio genere non è sicuramente la fantascienza, ma la storia mi aveva abbastanza intrigata.

Avevamo lasciato, al termine di questa prima parte, Paul Atreides (Timothée Chalamet) e sua madre, Lady Jessica (Rebecca Ferguson), nel deserto, privati della protezione della loro famiglia d'adozione e dei loro amici (sterminati) e affidati al benvolere dei Fremen, il popolo del deserto.

Li ritroviamo esattamente qui, in marcia per raggiungere il rifugio di questo popolo di guerrieri semi-nomadi, e bisognosi di trovare il proprio posto nel nuovo gruppo di cui stanno per entrare a far parte: Jessica, in quanto Bene Gesserit, come Reverenda Madre della comunità, mentre Paul si addestra a diventare un loro guerriero, un Fedaykin. Presto, il capo Stilgar (Javier Bardem) e chi crede nelle profezie delle Bene Gesserit vedrà in Paul il Lisan al-Gaib, destinato a rendere libero il popolo Fremen; mentre la guerriera Chani (Zendaya) si innamorerà di Paul.

A questo filone formativo e di rivelazioni del nucleo madre-figlio, si intrecciano i piani degli avversari di Paul. Da un lato il barone Harkonnen (Stellan Skarsgard) e i suoi nipoti, Rabban (Dave Bautista) e Feyd-Rautha (Austin Butler) hanno il loro da fare a gestire Arrakis e la produzione di spezia (meno centrale in questa narrazione, rispetto al precedente film, in cui era stata introdotta); da un altro l'Imperatore (che emozione rivedere Christopher Walken in una pellicola a ottant'anni) e sua figlia (Florence Pugh) devono fronteggiare le conseguenze di aver appoggiato gli Harkonnen nella distruzione del casato Atreides; infine, altre Bene Gesserit, che ormai da millenni hanno i loro piani per il destino dell'universo, portano avanti i propri interessi.

Paul subisce notevoli trasformazioni in questa seconda parte. L'abbiamo lasciato nel deserto, orfano di padre, senza i suoi uomini e maestri, deprivato delle sue certezze, del suo status, ricercato dalla famiglia Harkonnen. Deve farsi amici degli stranieri e dovrà prendere in mano il proprio destino di successore degli Atreides e persino di qualcosa di più (il Kwisatz Haderach creato dal potere e dalle arti delle Bene Gesserit). Ribalterà dunque la sua condizione, costruirà la sua via e la sua figura, proprio mentre la casata rivale completerà il proprio ciclo in modo del tutto diverso. Il protagonista si ritrova dunque non solo a imparare nuovi usi, costumi, linguaggio e modi di combattere, ma, soprattutto, è dentre di sé che dovrà operare importanti riflessioni, battaglie e cambiamenti.

Partiamo subito con una considerazione sulla produzione. Dopo aver realizzato un prodotto visivamente eccellente, che ai precedenti premi Oscar si era portato a casa sei statuette (fotografia, colonna sonora, sonoro, montaggio, scenografie ed effetti speciali) su undici nomination, il livello è stato confermato se non superato. La possibilità di riprendersi, al prossimo giro, le stesse vittorie (e forse di più) sono altissime.

Per esempio la regia è stata molto bella, con inquadrature veramente suggestive. Ancora è prematuro esprimere favoritismi, ma Villeneuve è già stato candidato in passato alla regia per Arrival, mentre per Dune: part one fu candidato alla sceneggiatura e per la produzione del film.

Greig Fraser restituisce nuovamente una fotografia sbalorditiva, a cui si prestano benissimo i paesaggi del deserto sabbioso; Hans Zimmer dà vita a una colonna sonora potentissima, che esalta ogni fotogramma della narrazione e anche il sonoro è notevole. Visivamente e a livello di spettacolo d'intrattenimento si tratta di un opera imponente, con scene magniloquenti ed epiche. La visione in sala IMAX è stata quanto mai necessaria e il prezzo del biglietto è stato ben speso (malgrado abbia ricevuto due pareri sul fatto che esaltasse immagine e suono pure troppo, ma era un po' questo lo scopo...).

Anche il cast è stato importante, anche se l'aggettivo corale per descrivere questa narrazione non mi convince: ci sono molti attori, sì, ma non altrettanti punti di vista, secondo me. Molti nomi erano già presenti nella prima pellicola, ma ci sono state aggiunte (la famiglia imperiale, il secondo nipote Harkonnen, Léa Seydoux e Anya Taylor-Joy) e defezioni (Oscar Isaac, Jason Mamoa). Ho trovato gli attori veramente bravissimi, con speciale plauso - per me - a Ferguson (una certezza), Pugh (molto precisa), Bardem (veramente tanto nella parte), Bautista (che non nasce attore, ma che negli anni si è molto perfezionato) e Butler (già con Elvis aveva fatto un bel lavoro, ma qua mi è piaciuto e mi ha convinta di più).

La storia copre un arco narrativo molto lungo, narra svariati eventi e mutamenti, anche politici, e lo fa in un tempo piccolo - meno di una gestazione -, forse troppo corto perché sia solidamente credibile. Questo, però, è vero se ci fermiamo a pensare solo in termini di mesi. La costruzione delle vicende per me ha funzionato e i tempi cinematografici c'erano. Il ritmo, in particolare, è cauto e dà ampio respiro alla narrazione: è lento (e questo è il solo difetto che trovo a questo film, per quanto importante), ma non mi ha mai annoiata. Nondimeno, questa lentezza si è fatta sentire, rendendomi la visione un po' claustrofobica (a un'oretta ancora dalla fine, una sbirciatina all'orologio l'ho data). Non è propriamente grave, ma non è un film che scorre senza che ce ne si accorga; del resto due ore e quarantacinque sono pur sempre tante e posso affermare di averle percepite tutte.

Sostanzialmente il film ha gli stessi pregi e difetti del primo (che infatti misurava solo dieci minuti meno del sequel), con una maggiore maestosità, se possibile, dovuta al proiettarsi della vicenda in un'altra prospettiva cosmica e al ribaltamento di poteri, con il protagonista che da fuggiasco e schiacciato assurge a messia e leader.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ Un gran bel film

domenica 10 marzo 2024

Waiting Academy Awards: la più bella commedia che ho visto negli ultimi mesi, American Fiction

 La commedia di Cord Jefferson (non solo regista, ma anche sceneggiatore), American Fiction, è veramente brillante e solleva una polemica, invitando a riflettere.



"Guarda cosa si aspettano che scriviamo."

Cosa succede se uno scrittore afroamericano scrive letteratura, ma non è quello che bianchi e neri si aspettano dal suo incarnato? Succede che si ritrova a occuparsi della madre ed è in difficoltà con le spese per l'assistenza, perciò decide, per fare soldi, di provare a dare agli editori quanto si aspettano, ossia, come viene definito nel film, il "black trauma porn". 

"La maggior parte della gente vuole cose facili."

Uno stereotipo inchioda gli afroamericani: la narrativa scritta, prodotta e comunque riguardante le black-people, anche quando proviene da persone che hanno fatto l'università e non parlano il linguaggio della strada, deve limitarsi a cliché. Da qui nascono una serie di riflessioni, ma anche di battute e situazioni comiche molto argute e raffinate. Mi ha veramente divertito tantissimo.

A questo si affiancano le personali vicende dell'autore, Thelonious Ellison, detto Monk, molto umane e altrettanto profonde. Monk si trova a confrontarsi non solo col suo presente, una giostra di malintesi, quasi una commedia dell'equivoco, ma anche col suo passato, che -come quello di tutti noi- nasconde fantasmi e problemi irrisolti con i suoi familiari.

Anche le sottotrame degli altri personaggi, come Lorraine, mi sono molto piaciute e riescono ad arricchire la storia.

Inoltre, l'attore, Jeffrey Wright, che si trova a recitare quasi due diverse parti, è stato magistrale. Un colpo al cuore il personaggio e l'interpretazione di Sterling K. Brown; scritto molto bene, nei suoi non detti, oltre che in quello che è mostrato, ci lascia intravedere la profondità del personaggio, il fratello di Monk, Cliff. Mi ha notevolmente sorpreso anche Adam Brody, che si cimenta in un ruolo, un paio di scene in realtà, un po' fuori dal suo abituale personaggio.

La musica è un'altra chicca: da manuale nell'evidenziare i momenti comici e drammatici, in crescendo e sottolineature studiate alla perfezione.

Quel che ho adorato di più, tuttavia, è la scrittura della commedia, sagace sia nella trama, che nelle battute: credo che tiferò questa candidatura ai premi Oscar. Del resto ha già vinto nella sua categoria (sceneggiatura non originale, poiché adatta il romanzo di Percival Everett, Erasure) ai premi BAFTA.

Non sorprende per niente, dopo la visione, che il film abbia cinque nomination (film, sceneggiatura non originale, attore protagonista e non protagonista e colonna sonora); quello che non capisco è perché sia passato quasi inosservato e non sia stato proiettato nelle sale cinematografiche. Per molte settimane non avevo neppure trovato informazioni sulla sua uscita su nessun sito (salvo scoprire che un'amica l'aveva visto in italiano non si sa bene come). Infine è approdato su Prime Video, dove l'ho recuperato per completare la decina dei migliori film candidati ai premi Oscar.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐

venerdì 8 marzo 2024

Waiting Academy Awards: un film spiazzante, La zona d'interesse

 Il film dell'inglese Jonathan Glazer, La zona d'interesse, Grand Prix Speciale della Giuria al festival di Cannes, è stato candidato ai premi Oscar di quest'anno non solo nella categoria dei film internazionali (rappresentando il Regno Unito -paese di produzione, insieme alla Polonia-, nonostante sia girato in tedesco), ma anche come miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura non originale e miglior sonoro (per un totale di 5 nomination).


Diciamo subito che il sonoro del film è una delle cose più particolari, rappresentando addirittura un elemento narrativo, disturbante, come nelle scene "buie", una delle quali, molto lunga, apre il film, nelle quali non si vede praticamente niente, se non un indistinto nero-rosso, e durante le quali, invece, si sente un rumore indefinito piuttosto forte, che potrebbe essere un vocio oppure qualcos'altro. L'interpretazione potrebbe essere da ricercarsi nel contesto, ma lo spettatore è libero di farsi la propria idea, considerando come sono state concepite. Di certo, l'impatto all'inizio è spiazzante, anche perché dura così a lungo che è inevitabile domandarsi se ci sia un problema tecnico, tanto più che l'ho visto al cinemino del mio paese, una piccola sala-teatro che poteva presentare degli inconvenienti.

La storia stessa, adattata dallo stesso regista dall'omonimo romanzo di Martin Amis, turba moltissimo. Siamo di fronte all'agghiacciante indifferenza e, non troppo velata, crudeltà di una delle famiglie che abitano di fianco, letteralmente al di là dello spinato, al campo di concentramento di Auschwitz. Il comandante Rudolf Höß è stato davvero il costruttore e il primo direttore del campo, chiamato poi ad altri compiti, come istruire altri nello stesso lavoro (rendiamoci conto di cosa significa). Vivere, però, in quella zona di interesse, così definita, rappresentava per lui e la moglie una condizione così favorevole, che la moglie, Hedwig, non seguì il marito quando i suoi incarichi lo allontanarono dal campo. Nel film Hedwig Höß dichiara che fa una bellissima vita in campagna e che spostare i suoi figli da lì è un dispetto: di certo godeva dei privilegi di poter prendere i beni confiscati ai prigionieri del lager.

Hedwig Hösse è interpretata da Sandra Hüller, che alla grande notte dell'Academy sarà presente non solo per questa pellicola, dove è stata magnificamente algida e cattiva, ma anche per Anatomia di una caduta, dove, con tutto un altro personaggio, è candidata per la sua performance da protagonista.

Risulta difficile non citare il titolo dell'opera di Hannah Arendt, La banalità del male: azioni mostruose commesse da persone normalissime, solo che, come vediamo nel film, discutevano dell'ampliamento dei forni crematori come se si trattasse della velocizzazione tecnologica di un processo industriale. Di fatto era proprio questo: rendere la distruzione di migliaia di vite efficiente come una fabbrica. Impossibile pensare a qualcosa di più aberrante, perché gli individui che hanno commesso tutto questo nella più cieca indifferenza erano identici a me o voi. Erano noi.

Ecco perché il punto di vista del film è così originale: non vediamo le atrocità commesse, ma solo chi le commetteva, nella comune, banale monotonia della loro vita: è come guardarsi allo specchio e vedere l'abisso, senza nemmeno fare lo sforzo di affacciarcisi sopra.

Il film, però, forse proprio per restituire la normalissima condizione di una qualunque famiglia, è indicibilmente lento. Malgrado la durata di solo un'ora e quaranta, mi è sembrato claustrofobico, probabilmente anche in virtù della raffigurazione così diretta di tanta indifferenza e cristallizzazione in una normalità delle barbarie che quella famiglia stava commettendo.

Riguardo la regia, ho trovato curiosa, forse significativa, l'introduzione ai personaggi fatta "da lontano". Nelle primissime scene gli attori sono sempre in secondo piano e, in generale, i primi piani sono rari, come se la macchina da presa si distaccasse volutamente da questa rappresentazione. Ho successivamente scoperto che il regista si è avvalso di molte camere nascoste, ma non so se quelle riprese iniziali sono state realizzate così. Molto particolare anche la scelta di spezzare la linea narrativa, mentre inquadrano Höß, in una sorta di flash-forward, che mostra il museo del campo di Auschwitz nel futuro.

In questo flash-forward si affiancano due normalità banali come quella degli Hösse e quella della manutenzione di un museo; eppure, per quanto possa spiegarmi alcune cose, dargli un significato, e per quanto riconosca che un simile punto di vista sia necessario e significativo, non posso non trovare il ritmo davvero un grosso problema, un punto sfavorevole.

Di certo si è trattato di un film molto ostico, per le tematiche ad alto impatto e per il suo ritmo, veramente molto difficile da affrontare. Riconosco la sua importanza, capisco il suo linguaggio, ma non mi è piaciuto.

Giudizio: ⭐⭐

lunedì 4 marzo 2024

Waiting Academy Awards con un film romantico: Past Lives

 La regista e sceneggiatrice teatrale e televisiva sud coreana Celine Song approda nel mondo del cinema e scrive e dirige Past Lives, che riceve un consenso unanime, venendo candidato ai più importanti premi cinematografici, tra cui Golden Globes e Oscar, nelle sezioni dei film internazionali.


La storia è deliziosa, commovente e ruota intorno a un concetto coreano sulla reincarnazione, In-Yun. Come spiega la protagonista del film, Nora, si tratta del destino che lega nei rapporti personali due individui ed è stato costruito nei loro contatti nelle vite passate.

Nora, cresciuta in Corea fino ai 12 anni, lascia insieme alla sua famiglia il paese (per gli USA) e il ragazzo che le piaceva, Hae Sung. Dodici anni più tardi, i due giovani (lei sceneggiatrice, come Song, della quale è alter ego, lui studente di ingegneria) si ritrovano, attraverso Facebook, e iniziano a parlarsi di nuovo, ma abitano in paesi diversi. Passano altri 12 anni prima che si trovino di persona a New York.

Dire di più sulla trama, credo sciuperebbe un po' le sorprese nel film, quindi preferisco limitarmi a queste poche informazioni.

Ho trovato straziante la storia di Nora e Hae e mi sono commossa durante la visione: a livello di messa in scena dei sentimenti, trovo che regia e interpretazioni siano stati grandiosi: mi sono sembrati enormi e palpabili, molto comprensibili. L'applicazione dello In-Yun alla storia mi è piaciuto moltissimo: ho al contempo imparato qualcosa di nuovo e l'ho trovato profondo, toccante e anche magico, in un certo senso. Diciamolo, ho anche sofferto abbastanza.

D'altro canto, devo dire che il film è anche molto lento e, in qualche ripresa, piuttosto ridondante. I film orientali, d'altro canto, hanno ritmi completamente diversi da quelli occidentali. Nondimeno, anche se si tratta solo di un'ora e quaranta minuti di film, ne ho avvertiti di più.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 3/4