lunedì 27 novembre 2023

Palma d'oro 2023: Anatomia di una caduta

 Quando accade un incidente e una morte non precisamente classificabile, si apre un'inchiesta per capire cosa è accaduto. Ecco, Anatomia di una caduta di Justine Triet fa questo: analizza ogni momento, dinamica e circostanza intorno a quell'incidente da ogni punto di vista.


Qua siamo sulle Alpi francesi e l'incidente è un caduta da una finestra di un uomo, Samuel, che sta ristrutturando quel preciso piano di questa baita, dove si è trasferito con la sua famiglia da qualche tempo. Le circostanze sono abbastanza sospette: quando l'uomo cade in casa c'è solo sua moglie, Sandra, con la quale i rapporti sono ambigui (ha appena interrotto una sua intervista da parte di una studentessa a sua moglie, che fa la scrittrice, mettendo la musica altissima).

Sono una coppia felice o litigano continuamente addossandosi le responsabilità dei loro fallimenti e della cecità del figlio, Daniel? Quella caduta è un incidente, un suicidio oppure Sandra l'ha ucciso?

Ognuna delle perizie sulla scena del crimine e sugli elementi che emergono nel corso delle indagini è interpretabile in ciascuna delle tre possibilità. Questo è un giallo giudiziario e Sandra è costretta a chiamare il suo amico avvocato, Vincent Renzi, per difendersi al processo contro di lei.

Le dinamiche sono molto interessanti: mi è piaciuta moltissimo la speculazione in ogni possibile senso dello stesso elemento (macchie di sangue, una registrazione, una conversazione, un'altra ancora, una perizia psichiatrica, i ricordi di ciascuno) che diventa prova d'accusa o di difesa a seconda di chi la descrive, di chi l'imbraccia. 

Tuttavia non ho compreso alcuni meccanismi del processo e non so se questo dipende dal fatto che in Francia la procedura giudiziaria è diversa da quella che finora ho percepito da libri e film su processi principalmente italiani o americani. Quel che non mi è tornato è che i testimoni non erano tenuti solo a esporre i fatti per come li ricordavano o per come li avevano appresi, ma erano invitati a specularci su, a ricavarne delle ipotesi o finanche delle fantasie che avrebbero potuto spiegare i fatti. L'accusa principalmente specula e immagina, utilizza brani dei romanzi dell'autrice per trovarci le tracce di un omicidio contemplato già molto prima di compierlo, mescolando costantemente realtà e fantasia. Non risparmia inoltre frecciatine, battute, anche cattive, cercando di sminuire l'accusata.

La difesa tenta dunque continuamente di distinguere fatti e ipotesi e di contestualizzare elementi che presi singolarmente ed estrapolati dal loro contorno appaiono colpevolizzanti, mentre Sandra continua a spiegare che sono una parte e non il quadro complessivo.

Mi è piaciuto tantissimo anche il ruolo di Daniel, che è molto difficile: il dibattito verte sulla sua disabilità, sul suo diritto a sapere, a capire cosa è successo a suo padre, ma anche a testimoniare a favore o contro sua madre, ma senza che i suoi ricordi vengano sminuiti perché bambino o perché ipovedente o perché affettivamente legato alla madre. 

Le figure che ruotano intorno a Daniel cercano di proteggerlo: la madre lo esorta a dire la verità perché non potrà nuocerle, mentre la giudice nomina una garante della sua testimonianza, col compito di vigilare che la madre non influenzi il bambino, ma dialoga anche con lui per invitarlo a non assistere a fasi dure del processo. Daniel dovrà infatti venire a conoscenza di fatti crudi relativi alla morte del padre e ai rapporti tra i suoi genitori. L'altra figura cruciale per tanti aspetti che vigila su Daniel è il cane Snoop, che si è anche vinto meritatamente il Dog Palm (io continuo a domandarmi una certa scena come l'abbiano realizzata e se si tratti di addestramento -e allora chapeau- o di altro, ma sarebbe crudeltà sugli animali e nel 2023 credo che non sia più possibile).

Riguardo la regia, ci sono molti movimenti di macchina che seguono le azioni, seguono l'attenzione dello spettatore che si sposta come nelle partite a tennis da un performer all'altro, persino con un singolare movimento avanti-indietro in una precisa scena.

Il film dura due ore e mezza, ma è raccontato così bene, gli eventi si succedono in modo così incalzante, che il ritmo non cala mai e così l'attenzione. Non annoia, anzi si resta rapiti e interessati all'andamento del processo. Ci facciamo le nostre teorie nel corso del dibattito e vogliamo sapere come va a finire e dove sta la verità: a un certo punto le prove convergono verso un certo punto e lasciano pochi dubbi.

Giudizio: piacevole, ben scritto, molto interessante, convincente ⭐⭐⭐ 3/4

mercoledì 22 novembre 2023

EO: il mio trauma animalista

 Ho aspettato molto a parlare di questo film, visto durante l'estate, perché dovevo riprendermi dal formidabile shock della sua visione che è stata potente e penosa (e uso entrambi gli aggettivi in senso positivo).


Il regista polacco Jerzy Skolimowski frequenta le kermesse europee dagli anni Sessanta e al Festival di Cannes 2022 ha presentato lo straziante EO, che gli è valso il premio della giuria. Il film è stato anche selezionato nella cinquina di film che ha concorso all'Oscar 2023 nella sezione film internazionali.

La sceneggiatura adatta il film di Robert Bresson del 1966, Au hasard Balthazar, che all'epoca fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia.

In entrambe le storie l'asinello protagonista subisce ogni possibile disavventura e crudeltà e, in particolare, nell'adattamento di Skolimowski la storia inizia da una condizione di temporanea serenità. EO è l'asinello di un circo polacco, coccolato e benvoluto dalla sua compagna di performance, finché il circo non viene chiuso e gli animali sono smistati in altre sistemazioni. Paradossalmente è un'associazione animalista che fa allontanare le bestie, accusando i circensi di crudeltà sugli animali, ma le destinazioni di EO (forse anche degli altri?) restano sempre utilitaristiche e raramente benefiche per il povero animale. Iniziano dunque le peripezie della bestiola, sballottata da un rifugio a un luogo di lavoro, da una sistemazione a un'altra. A volte è lo stesso EO che scappa da situazioni più o meno negative: romanticamente si direbbe che cerchi di tornare dalla sua padroncina, le cui attenzioni forse rimpiange (continuano a salirmi le lacrime anche a scriverne).

Il regista sembra dirci proprio questo e lo fa esclusivamente attraverso le immagini. I personaggi umani dialogano tra loro o parlano a EO, ma molte scene non prevedono affatto la loro presenza e il punto di vista sembra essere sempre quello dell'asinello. La scelta delle inquadrature e delle immagini vogliono dirci cosa pensa EO, cosa vede e il linguaggio elaborato da Skolimowski mi ha incantata: è essenziale, è preciso, l'immagine è potente, perché riesce a raccontare sequenze narrative, ma anche sentimenti e pensieri senza necessità della parola. La durata del film è contenuta (meno di un'ora e mezza), ma sufficiente a raccontare molti episodi e ad arrivare al cuore dello spettatore (e distruggerlo).

Sono tornata a casa molto turbata dalla visione (alcune scene sono crude, anche solo facendo intendere, senza mostrare) e rattristata dalla storia, ma anche entusiasta di aver visto una prestazione registica così raffinata, un linguaggio così pulito e conciso e allo stesso tempo perfettamente capace di generare emozioni fortissime.

Il regista centra in pieno il suo intento, giacché ha messo in scena questa storia mosso da ideali animalisti e desideroso di denunciare la crudeltà sugli animali.

Giudizio: crudo ma perfetto ⭐⭐⭐⭐⭐

La mia seconda volta col cinema coreano: Decision to leave

 Undicesimo lungometraggio del regista coreano Park Chan-wook, che ho conosciuto per la prima volta con questa pellicola, Decision to leave è un thriller e una drammatica storia d'amore.


Qualcosa turba la vita e, soprattutto, il sonno del detective coreano Jang Hae-jun. Il detective vive in un'altra città rispetto a sua moglie e torna a casa solo nel week end, mentre durante la settimana si impone turni massacranti e spesso notturni.

In questa atmosfera di irrequietezza e dalle tinte cupe Jang si imbatte in un caso molto strano: la morte di un uomo che sembra un incidente in montagna. La moglie cinese, Song, vittima di violenza domestica da parte del marito, però risulta sospetta e Jang indaga su di lei per capire se in realtà non si tratti di un omicidio mascherato da incidente. La donna incuriosisce e attrae il detective, già stremato dal poco sonno, rendendolo ancora meno lucido nelle indagini.

Cosa si nasconde dietro le storie di Jang e Song? La trama si infittirà sempre di più e vale la pena di seguirla per arrivare al bandolo della matassa. 

Il regista piazza anche un paio di colpi di scena imprevisti e un finale abbastanza spiazzante.

Non mi ero mai confrontata con il cinema di Park Chan-wook e, in generale, conosco a malapena il cinema coreano, eccettuato Parasite. Si tratta sicuramente un modo di fare cinema molto attento a cosa mettere in scena per passare determinate informazioni, indizi, emozioni.

Decision to leave è un film psicologico, che analizza le emozioni e i pensieri dei personaggi (soprattutto di Jang, mentre Song è più criptica e lo sarà fino in fondo), essenziali nella dinamica della storia, nel meccanismo del thriller. Persino gli oggetti in questa messa in scena non sono casuali e aiutano a costruire il racconto o a delineare i personaggi. Il ritmo risente un po' di questo aspetto e in alcuni momenti, soprattutto a metà/tre quarti della storia, mi ha un pochino annoiata, complice anche la durata di due ore e un quarto di film.

Tuttavia il film è comunque interessante e per me ha rappresentato una novità: ha una storia originale, interessante, anche intrigante. Mi sono molto piaciuti i personaggi, soprattutto Song, così indecifrabile e incantevole, sulla quale sicuramente è stato fatto un attento lavoro di scrittura. Anche le recitazioni sono notevoli e piuttosto diverse da quelle occidentali. Non a caso Tang Wei è un'attrice molto nota a oriente ed è stata voluta per questo film dal regista e dallo sceneggiatore (Jeong Seo Gyeong), che forse già pensavano a lei quando hanno scritto il personaggio. 

Probabilmente una seconda visione e una più approfondita cultura dei film orientali in generale (e coreani in particolare) mi permetterebbe di apprezzare meglio questa pellicola, per la quale la mia opinione è comunque favorevole, ma, al momento, tiepida.

Il film è stato presentato al Festival di Cannes 2022, dove il regista ha vinto il Prix de la mise en scène, ed è stato candidato come miglior film straniero ai Golden Globes e ai BAFTA 2023.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 1/2

martedì 14 novembre 2023

Un noir gotico nel 2023 che convince: the Pale Blue Eye

 All'inizio dell'anno, proprio per la Befana, su Netflix è approdato un prodotto molto interessante e abbastanza raro da trovare: un mistery, una detective story, dalle tinte cupe e gotiche. Si tratta di The Pale Blue Eye - I delitti di West Point (come è stato aggiunto al titolo italiano) di Scott Cooper.


Il protagonista è Christian Bale, che con Cooper aveva già fatto altri due film, Out of the FurnaceHostiles. Stavolta Bale interpreta un solitario detective vedovo, August Landor, stroncato dalla fuga della figlia anni prima, che è chiamato a indagare sulla morte di un cadetto dell'Accademia militare di West Point, che -guarda caso- è l'Accademia in cui Edgar Allan Poe si arruolò nel 1830, sebbene per restarvi pochi mesi, a causa di liti col patrigno. Poe (interpretato da un bravissimo Harry Melling), in effetti, partecipa con Landor alle indagini sulla morte del primo cadetto, che ovviamente sembra un omicidio e che non sarà l'ultima.

Il film mi è piaciuto: ha una bella estetica gotica, costumi e scenografie molto curate, atmosfere cupe. Ambientato tra nebbie, neve e scene notturne, presenta molti elementi anche del gotico. Inoltre la presenza di Poe e i riferimenti alla sua vita e alla sua poetica lo rendono un regalo per i fan dello scrittore.

La storia gialla funziona e poggia anch'essa sul gotico. Ha alcuni interessanti colpi di scena, di cui uno inaspettato, almeno per me.

Giudizio: Giallo godibile, leggero, dalle atmosfere perfette per una bella serata autunnale o invernale, magari nella spooky season. Ottime interpretazioni. ⭐⭐⭐⭐

martedì 7 novembre 2023

Esordio alla regia di Paola Cortellesi: C'è ancora domani

 Alla seconda domenica di proiezioni sono rimasta non poco stupita di vedere un discreto (considerando il periodo) numero di persone in sala per assistere al primo film diretto da Paola Cortellesi: C'è ancora domani. Il motivo mi è stato chiaro ben prima della fine del primo tempo: passaparola positivo, senza dubbio.


Se Bisio ha scelto la Seconda Guerra Mondiale (e un argomento molto sensibile da trattare) per ambientare il suo primo film a Roma, la Cortellesi sceglie un periodo di poco successivo e la stessa città: il secondo dopoguerra e, in particolare, la vigilia del referendum monarchia vs repubblica e delle elezioni per l'assemblea costituente del 2-3 giugno 1946, le prime dopo il fascismo e la guerra e le prime aperte alle donne.

Anche Paola Cortellesi parte col piede sull'acceleratore, trattando della condizione femminile sotto multipli punti di vista, a partire dal diritto di voto: la storia della famiglia di Delia (Cortellesi protagonista, oltre a regista) dà l'occasione per passarli in rassegna.

Delia si è infatti sposata con un uomo violento (Valerio Mastrandea), che, come il padre Ottorino (Giorgio Colangeli), ne pretende i servigi e il silenzio. La donna all'epoca (e non solo) era reputata infatti solamente una nullità, da tenere sotto sorveglianza perché poteva comportarsi sempre in modo sconveniente e lascivo, e da malmenare per "istruirla". Inoltre l'educazione, indipendentemente da inclinazioni e merito, era riservato solo ai figli maschi: alle figlie femmine toccava trovarsi un lavoro per aiutare a mantenere la famiglia e, possibilmente, portare il prima possibile la propria bocca da sfamare a un marito in grado di mantenerle. Così è per Marcella (Romana Maggiora Vergano, che mi è molto piaciuta), la figlia più grande di Delia e Ivano, che spera, col matrimonio con Giulio, di allontanarsi presto dalla miseria e meschinità della sua famiglia. Anche Delia desidera che la figlia si emancipi, si salvi: desidera per lei una condizione migliore e spera che la trovi nel ragazzo che sembra volerle così bene (ma sarà così?). Per questo fa la cresta sui suoi guadagni, così da metterle da parte i soldi per acquistare uno splendido abito da sposa.

Già, perché i soldi guadagnati da una donna non appartenevano certo a lei, bensì al padre o al marito, che li spendeva a propria discrezione. Nel caso del marito di Delia nel gioco e nelle donne, oltre che nelle spese di casa. Inoltre lo stipendio delle donne era sempre inferiore a quello di un uomo, indipendentemente dall'esperienza e dall'anzianità lavorativa. Nelle classi più agiate, invece, la donna non doveva affatto lavorare, bensì farsi mantenere, per non far sfigurare il marito: in ogni caso l'indipendenza economica femminile non era contemplata per nessuna classe sociale.

Nel buio di questa situazione, l'unica cosa a cui aspira Delia è proprio tutelare la figlia (e nel corso del film capirà il modo migliore per farlo, in una soluzione che ho adorato), finché non scopre che il suo amore di un tempo, Nino (Vinicio Marchioni, eccezionale come sempre, anche se per poco più di un cameo), sta per lasciare Roma, offrendole una possibilità di vita diversa.

Venendo alla regia di Paola Cortellesi, sono rimasta molto favorevolmente colpita, a partire dai tempi comici, orchestrati alla perfezione, a volte anche a tempo con la musica, che spesso gioca grande parte nella scena, fino a essere parte stessa della narrazione (cose che ho adorato), come nel delizioso finale, parzialmente aperto. La principale scena di violenza di Ivano è infatti mascherato da ballo, riuscendo al contempo a edulcorarla per portarla al tono della commedia, sia a far comprendere comunque la gravità di quanto accade, rafforzata anche dalle reazioni degli altri personaggi che vi assistono o che notano i segni su Delia.

Inoltre ho apprezzato che il contesto della rappresentazione non rimanesse mero sfondo delle vicende: già nei titoli di testa scorrono infatti immagini della Roma del dopoguerra e dei suoi abitanti, ritratto di quel periodo e delle sue abitudini, e successivamente vediamo altre abitudini di vita e di lavoro: il mercato, il bar, l'attacchino dei manifesti elettorali, la corte, il servito buono, la fabbricazione manuale degli ombrelli, le riparazioni della biancheria.

E che dire della mia scena preferita? La condivisione con Nino della cioccolata che un soldato americano regala a Delia, dona a noi una scena romantica e dolcissima, ma anche comica, mentre i due si guardano e si sorridono.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

Le interpretazioni sono buone, anche nei personaggi secondari, i costumi e le acconciature mi sono piaciuti e hanno contribuito a connotare i personaggi, mostrandone con chiarezza il livello sociale. L'uso della musica, come ho già detto, l'ho trovato brillante. Ma soprattutto adoro come la storia, che è molto coinvolgente, è stata usata come strumento di racconto sociale e di memorandum di cosa la donna si è conquistata nel corso del tempo, poiché no, non abbiamo sempre avuto le libertà e le possibilità di cui godiamo oggi e questo lo dobbiamo a quel voto del 1946 che per la prima volta ci ha permesso di dire la nostra sui nostri diritti. Da qui il finale, il riferimento al titolo e il fatto che il momento dell'attesa di quel momento cruciale sia proprio la locandina del film.

Ricordiamocelo.

Esordio alla regia di Claudio Bisio: L'ultima volta che siamo stati bambini

 La prima volta di Claudio Bisio alla regia lo vede impegnato in una storia sulla Seconda Guerra Mondiale, trattando un tema delicato e importante, da un punto di vista molto particolare: quello dei bambini.


Italo (Vincenzo Sebastiani), Cosimo (Alessio Di Domenicantonio), Riccardo (Lorenzo Mc Govern) e Vanda (Carlotta De Leonardis) sono bambini che giocano insieme nel cortile di un quartiere romano proprio nel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, tra attacchi aerei e sotto un regime fascista che si è compromesso con i tedeschi fino al punto di aiutarli a deportare gli ebrei nei campi di concentramento.

È quello che origlia Italo, figlio di un federale fascista (Bisio), in una riunione del padre con un alto militare nazista: così scopre cosa sta succedendo quando Riccardo, di famiglia ebrea, scompare qualche giorno dopo. I bambini capiscono che un misterioso treno si è portato via il loro amico e decidono di andare a salvarlo seguendo i binari dalla stazione Termini fino alla Germania.

Sulle loro tracce si mettono a inseguirli il fratello di Italo, Vittorio (Federico Cesari), militare fascista a riposo per una ferita di guerra, e Suor Agnese (Marianna Fontana), religiosa del convento in cui Vanda è ospitata in quanto orfana, molto affezionata alla bambina.

I tre ragazzi hanno tutti storie tristi alle spalle, ma affrontano con allegria e col gioco tutto il viaggio alla ricerca di Riccardo. Italo si sente disprezzato dal padre, che considera il fratello maggiore il perfetto esempio, mentre Italo non sarebbe mai all'altezza. Cosimo è orfano di madre e ha il padre in esilio, quindi vive con il fratellino e con un nonno che riesce a stento a mantenerli. Vanda sogna di essere adottata, ma è troppo grande per piacere a degli aspiranti genitori.

È solo il punto di vista di un bambino che può domandarsi come mettere insieme gli insegnamenti del padre che gli dice che gli ebrei sono il "male del mondo" col fatto che il suo amico ebreo sia in tutto e per tutto nel fisico proprio "l'ariano" che sempre il padre gli descrive e soprattutto come inglobare il fatto che quel bambino è simpatico e che gli vuole bene.  È solo l'ideale di un bambino che può condurre i tre ragazzi ad affrontare fatica, fame e paure per l'avventuroso viaggio al salvataggio di Riccardo.

Riguardo alla politica, Vittorio e Agnese, col loro continuo dibattito, si renderanno portavoce di opposti ideali: quello fascista e militare, inculcato nelle menti degli italiani dal regime e quello pacifista, guidato dall'amore per l'altro (in lei ispirato chiaramente dalla religione).

Le interpretazioni sono state buone, soprattutto quelle dei bambini, veramente straordinari a reggere la telecamera così bene e così a lungo. Lo sguardo dolcissimo e sperduto di Cosimo quando pensa alla mamma è tenerissimo.

Il film è stato divertente e mi è piaciuto. Per lunga parte ho ritenuto che la tematica della shoah (ma anche quelle del fascismo quella dei partigiani -guerra civile nella guerra-, accennata proprio en passant) venisse trattata con troppa leggerezza, però il punto di vista della narrazione è quasi sempre quello dei bambini (è meno giustificabile il teleromanzo di Vittorio e Agnese), dunque volutamente lieve. In effetti il finale è una stilettata al costato e giustifica il titolo del film.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 3/4

sabato 4 novembre 2023

Dolcemente strappalacrime: l'imprevedibile viaggio di Harold Fry

 Condito come se fosse una commedia, in realtà L'imprevedibile viaggio di Harold Fry di Hettie Macdonald è un film agrodolce, che maschera con la vena comica di Jim Broadbent una tristezza di fondo neanche troppo celata.


Il film è tratto dall'omonimo libro di Rachel Joyce. C'è un dramma nella vita dei coniugi Fry, che si svelerà a poco a poco nel corso del film. Un giorno Harold riceve la telefonata di una vecchia collega, con cui si sente in debito: Queenie sta morendo di cancro, è ricoverata in un hospice a Berwick-upon-Tweed, nel Nord dell'Inghilterra. Harold decide, dopo aver sentito un aneddoto simile, di compiere un atto di fede, una sorta di fioretto, per salvarla: camminare per circa mille chilometri dal Devon, nel sud, fino a Berwick. L'uomo, che aveva sempre condotto una vita tranquillissima, sconvolge la moglie e parte, del tutto impreparato per l'impresa. Fortunatamente lungo la via incontrerà molte persone disposte ad aiutarlo, riuscendo addirittura a raccogliere un seguito di pellegrini desiderosi di unirsi alla causa.

Il film mi è piaciuto e mi ha travolto emotivamente: i personaggi impattano tutti fortissimamente con Harold e con lo spettatore, soprattutto la ragazza del distributore e il medico che ospita il viandante stremato. I misteri della storia di Harold e di sua moglie Maureen si svelano a poco a poco nel corso del film e colpiscono molto sotto la cintura. Oltre al dramma principale, molte altre piccole storie si inanelleranno nella narrazione.

Passando ai protagonisti, Harold è un personaggio all'apparenza delizioso, ma che rimpiange l'indolenza del passato e le sue difficoltà nei rapporti umani. Commette comunque un colpo di testa che lo porta a crescere e a confrontarsi anche con i fantasmi del passato. Maureen, invece, è una donna estremamente fragile, intrappolata nel suo ruolo di moglie, che vacilla quando il marito intraprende il viaggio, che la farà sentire spaesata e insicura. Per questo l'unico aspetto stonato, per me, nel film è la negatività del personaggio di Maureen per una parte del film, caratteristica perfettamente comprensibile per l'epoca in cui si ambienta la sua storia, ma comunque spiacevole. I due interpreti, ad ogni modo, sono bravissimi.

Giudizio: alto livello di lacrime ⭐⭐⭐ 1/2