lunedì 16 settembre 2024

Maratona Beetlejuice

 Per qualche ragione non avevo mai visto il film di Tim Burton del 1988, così ho fatto un esperimento. In rapida successione ho visto il primo Beetlejuice il giovedì sera, gentilmente messo a disposizione da Prime Video, e sono andata al cinema il venerdì per vedere Beetlejuice  Beetlejuice. Com'è cambiato il cinema di Burton in trentasei anni? Ovviamente tanto, a partire dagli effetti speciali naturalmente, ed era proprio ciò che ero curiosa di scoprire.

Il primo film, proprio stile anni Novanta, è invecchiato un po', ma non esageratamente considerando i pupazzoni e le battute un pochino demodé. Protagonisti corali della storia sono sia i coniugi Maitland, sia la famiglia (abbastanza disfunzionale) dei Deetz. Dopo un assurdo incidente dei primi, Adam (Alec Baldwin) e Barbara Maitland (Geena Davis) si ritrovano da spettri a contendersi il dominio della casa con i secondi, mentre sono ancora alle prese con ambientarsi nel limbo tra vita e morte (con tanto di manuale dedicato del "recente deceduto"). I trapassati proprietari amavano la loro casa esattamente com'era, mentre Charles (Jeffrey Jones) e Delia (Catherine O'Hara) Deetz sono eccentrici e moderni e desiderano cambiarla radicalmente. Completamente diversa dal padre e dalla matrigna, invece, è Lydia Deetz (Winona Ryder), malinconica e gotica e capace di vedere le presenze dell'altro mondo e della casa, verso le quali è più bendisposta che verso i suoi parenti. Forse è proprio lei il personaggio che è rimasto più impresso negli anni, oltre, naturalmente, al protagonista negativo, ma divertente e irriverente, interpretato da Micheal Keaton.

Il demoniaco Beetlejuice entra in scena quando Adam e Barbara si rendono conto che nessuno dei loro tentativi di terrorizzare i Deetz funziona, mentre tutt'altro che ortodossi sono i metodi di colui che si fa chiamare "bioesorcista" e che può essere evocato solo pronunciando il suo nome tre volte.

Cos'ha di adorabile questo film, tanto che è diventato un cult?

La storia è frizzante ed eccentrica e ho adorato il modo in cui è raffigurato l'oltretomba, popolato di cadaveri immobilizzati nel momento del trapasso e spesso intenti a fare la coda per ricevere informazioni o vedere i propri "consulti" (come il personaggio interpretato da Sylvia Sidney) per ricevere aiuto. Probabilmente la cosa che ho preferito, però, sono i vermi delle sabbie in stop motion che omaggiano l'opera di Frank Herbert. Inoltre i personaggi sono, ognuno a suo modo, adorabili: totalmente sopra le righe i Deetz, teneri e pisseri (e anche bellissimi) i Maitland. Keaton poi è veramente straordinario, a suo agio nell'interpretare un personaggio istrionico e comico. Anche la colonna sonora di Danny Elfman è particolare (il tema dei titoli iniziali, per esempio, è molto caratteristica).

Cosa non ha superato la prova del tempo?

Sostanzialmente le battute ormai suonano stantie al nostro gusto attuale, così come alcune scene un po' grottesche, che tuttavia forse costituiscono uno tra i perché della fama del film: la scena del ballo a cena sulla canzone Day-O, ma anche il bioesorcismo di Beetlejuice.


Cambiando adolescente il risultato non cambia?

Un po' cambia. La storia della famiglia Deetz evolve: ritroviamo Lydia e Delia, la prima ha fatto carriera per le sue capacità medianiche, ma ha più di un problema di stabilità emotiva (come da adolescente, ma con meno grinta), la seconda continua a fare arte a modo suo. Non torna a far parte del cast, invece, Jeffrey Jones, ma hanno trovato un modo delizioso di mantenere nella storia il suo personaggio. Il nuovo acquisto della famiglia, invece, è l'adolescente Astrid (Jenna Ortega), orfana di un padre da cui Lydia si era comunque già separata. Astrid non crede che la madre possa vedere e parlare con le presenze dell'Aldilà ed è in conflitto con lei e con la sua relazione con Rory (Justin Theroux).

Per tutto il primo tempo non succede quasi niente, tranne la comparsa in scena di Jeremy (Arthur Conti), che fa provare qualche brivido ad Astrid, di una femme fatale interpretata da Monica Bellucci, che è sulle tracce di Beetlejuice, e del detective-ex-attore-cinematografico di Willem Dafoe, che invece cerca di rintracciare la Bellucci. La scena in cui quest'ultima si "rimonta" pezzo per pezzo è la mia preferita del film (anche se poi non serve a molto altro), mentre Dafoe regala risate a ogni apparizione in scena.

Il secondo tempo, per fortuna, parte e mi convince, anche se la scrittura che porta dalla prima noiosissima parte alla seconda, piena di intersezioni tra le storie e ritmo, procede un po' a scatti (e forse anche a caso). Rispetto al primo film Keaton è più presente e ha sempre la stessa ossessione del primo film.

Tutto sommato la storia e molte trovate mi sono piaciute, oltre agli omaggi al primo Beetlejuice (a partire dall'auto dei Maitland - che non sono più nella storia- sotto al ponte del plastico in soffitta), però la scrittura ha scricchiolato parecchio e non mi è piaciuto né il personaggio (l'adolescente musona studiosissima e impegnata, che però si rivela veramente troppo ingenuotta), né la recitazione di Jenna Ortega, molto monoespressione.

Giudizio: discreto intrattenimento, mi sono divertita, però molto pigra la scrittura nel far procedere la storia, con troppa distanza tra un primo tempo deserto e inutile e il secondo, che vale la pena.

N.B.: preparatevi al terzo...non penserete che il nome di Beetlejuice non debba essere evocato tre volte anche nel titolo, vero?

giovedì 27 giugno 2024

Inside Out 2: una bella visione dell'adolescenza e dintorni

 Ce la ricordiamo tutti l'adolescenza, vissuta in prima persona o "ripassata" attraverso le esperienze con figli o nipoti?

Pixar la porta una volta ancora sugli schermi, rendendo questo periodo della vita (tanto delicato e considerato solo come una scocciatura, eppure fondamentale per modellare la vita di un futuro adulto) protagonista del sequel di Inside Out (film che ho visto una sola volta, a causa del gigantesco trauma provocato da Bing Bong - chi ha visto, sa), diretto da Kelsey Mann. Era già successo con Red, che aveva come fulcro il menarca della protagonista. Questa tendenza devo dire che mi sta piacendo.

Questo sequel - a nove anni di distanza dall'originale - era particolarmente atteso (e il primo film molto amato) anche se non mi aspettavo che arrivando al cinema del mio paese nel pomeriggio sarei rimasta fuori per sold out! Ne sono stata felicissima (un pelo meno di fare due volte il viaggio, ma il segnale è positivo).


Torniamo dentro alla mente di Riley, che alla vigilia del liceo è alle prese con alcuni cambiamenti, non solo ormonali. L'adolescenza non porta con sé solo brufoli e cambi di scuola e situazioni, ma anche nuove emozioni, difficili da gestire, più complesse, meno controllabili e un generale caos.

Nel contesto del film questi cambiamenti si esasperano nel corso di un week end, quello durante il quale Riley e le sue inseparabili due amiche della scuola e della squadra di hokey sono invitate a un programma sportivo nella futura scuola superiore della protagonista. Si tratta di una sorta di breve campus per scoprire talenti. In questo arco di tempo, Riley scopre che la sua rete di amicizie potrebbe cambiare repentinamente. Che accadrà? 

Gioa, Rabbia, Tristezza, Paura e Disgusto, che hanno plasmato, in un certo senso, la Riley bambina e le sue convinzioni (qui lacrimuccia), sono costrette a lasciare il passo a (a essere represse da) Noia (in realtà, alla francese, Ennui), Imbarazzo, Invidia, ma soprattutto Ansia, che intende soppiantare Gioia al comando della vita emotiva di Riley. 

Ne esce fuori un quadro piuttosto verosimile di quel che è il nostro stato emotivo e intendo dire non solo degli adolescenti, ma anche degli adulti. Ci sono momenti in cui per molti di noi l'ansia monopolizza i nostri comandi operativi (a un certo punto assistiamo a questo anche in questo film ed è la seconda volta che un attacco di panico è portato in un film d'animazione, almeno fra quanti ne ho visti recentemente, dopo Il gatto con gli stivali 2 - che ho adorato). Quella paralisi con impossibilità di accesso a ogni altro pensiero è qualcosa che, credo, sia capitato a tutti qualche volta nella vita e la scena che raffigura tutto questo è non solo bellissima, ma anche efficace nella sua rappresentazione.

Il finale e la morale di questo film mi sono piaciuti molto. Anche riguardo al tema di accettare ogni lato di sé, anche quelli negativi, senza rinnegare o vergognarsi di nulla, poiché noi lo siamo in modo integrale, con tutto quel che ci è successo nella vita, la Pixar aveva già detto la sua con Red. C'è molto di psicologico in questo film, dalle emozioni represse all'evitamento, fino all'attacco di panico; giusto proseguo di quanto già affrontato col primo film, che si focalizzava nel mondo emotivo del bambino, quando accettare la propria tristezza e, in senso lato, ogni emozione era il messaggio.

Trovo che, rispetto alla tendenza Disney di mettere al primo posto il messaggio, penalizzando il divertimento, questo lavoro sia superiore. La sceneggiatura di Meg LeFauve (nel team anche del primo film) ha lavorato su una storia strutturata per portare un messaggio, ma è coerente e non forzata.

Non mancano comunque nel film momenti di dolcezza (io mi sono commossa un paio di volte), di risate e anche di avventure, poiché, come nel primo film, si compie un viaggio all'interno della mente di Riley, che esplora aree in parte conosciute e in parte modificate (persino in corso di modifica - sempre colpa dell'adolescenza) e che comporta alcuni ostacoli da superare.

Le nuove emozioni sono ben inserite e, anche se avversano le emozioni più ancestrali, di fatto non costituiscono un vero antagonista nel film, cosa piuttosto normale, poiché si tratta di una convivenza fra emozioni nella stessa mente e dunque fra parti di sé stessi, in fondo. Riguardo alle emozioni più vecchie, sono un po' trascurate Disgusto e Paura, mentre Rabbia ha un pochino più spazio e Tristezza, co-protagonista del primo film, persino qualche scena dedicata, molto divertenti.

Si intravede anche un'ulteriore emozione, Nostalgia, che è costantemente rimandata indietro dagli altri personaggi, poiché precorre troppo i tempi: un'emozione che ha l'aspetto di una fragile nonnina. Ci saranno altri capitoli di questa storia? Potenzialmente i capitoli sono infiniti, in primis perché potremmo vedere la vita da liceale di Riley, il suo approccio con l'amore e altre insicurezze nell'affacciarsi alla vita adulta; la stessa vita adulta, con sesso, maternità, lavoro, preoccupazioni; e via discorrendo, potremmo arrivare fino alla vecchiaia.

Riguardo l'aspetto tecnico del film, il livello delle immagini e dell'animazione è altissimo, come ci aspettiamo sempre da Pixar, con ogni particolare dell'ambiente curato e splendente di colori. A questo si aggiunge un bonus (colpa di Spider-Man: Across the Spider-Verse, che ha lanciato la moda della pluri-animazione nei film d'animazione?): in una certa sequenza ci sono personaggi che appartengono ai ricordi di Riley e che provengono dal mondo dei cartoni animati o dei videogiochi. Questi personaggi hanno disegni (2D) e animazioni propri e "staccati" dalla grafica del film stesso, che è in 3D. 

Attenzione! Andate al cinema a vedere il film, ma non scappate prima che siano finiti i titoli di coda, perché c'è una scena post-credit: niente di fondamentale, ma molto divertente.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

giovedì 30 maggio 2024

La genesi di Furiosa

 Conosco la saga di Mad Max (opera di George Miller, che l'ha ideata, scritta e diretta per intero) solo per il film del 2015, Mad Max: Fury Road, pellicola durante la quale si incontrano il protagonista Max Rockatansky (con le sembianze di Tom Hardy) e Furiosa, personaggio interpretato da Charlize Theron. Il cattivo del film del 2015, inoltre, è Immortan Joe, ma questi ultimi due personaggi non compaiono nella trilogia che vede Mel Gibson interpretare il Guerriero della strada tra il 1979 e il 1985.

Fury Road mi era piaciuto (e ne scrissi nel blog che tenevo all'epoca), con qualche riserva sulla sua candidatura agli Oscar in qualche categoria (principalmente come miglior film, mentre trovavo calzanti le nomination e le vittorie ー sei ー del comparto tecnico).

Furiosa: a Mad Max Saga è il prequel del film Fury Road e, in senso assoluto, è uno spin off della saga principale, in quanto non compare Max Rockatansky. La protagonista è, infatti, Furiosa, imperatrice nel film del 2015, mentre in questo capitolo la vediamo bambina e assistiamo alla sua crescita, fino a diventare pretoriana. Il film è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes, circa una settimana prima della sua uscita mondiale, mostrando un esordio molto timido al box office del primo week end.


Ho apprezzato molto la struttura e la scrittura di questo film, vera origin story (non come quel troiaio di Cruella), del personaggio che porta adesso il volto di Anya Taylor-Joy.

Il film si divide in cinque capitoli, ognuno dei quali costituisce una pietra miliare della crescita della protagonista, rendendolo di fatto un film di formazione.

Inizia in modo molto dinamico, proiettandoci dapprima nel "Luogo Verde" di cui si parla incessantemente durante tutto Fury Road, in quanto motivo scatenante della dinamica centrale della pellicola, poi immediatamente in mezzo all'azione. Dei predoni scoprono il Luogo Verde, una delle poche oasi ricche di risorse in mezzo a un deserto dove scarseggiano acqua, cibo (insieme al carburante le principali merci di queste Terre Desolate), e rapiscono Furiosa, per portarla dal loro padrone, Dementus (Chris Hemsworth). Questo rapimento, le sue immediate conseguenze e il periodo trascorso prigioniera presso un leader violento, sadico, ma anche disorganizzato, tanto da pensare di sfidare Immortan Joe, comportano un traumatico cambiamento di vita per la ragazzina, interpretata da una giovane Alyla Browne. 

Se con Dementus apprenderà la violenza e gli stratagemmi del capo nomade, nel corso della sua crescita incontrerà altri personaggi, che le insegneranno la meccanica e il combattimento su strada, rendendola la macchina da guerra che ci ha affascinato nel 2015. Scopriremo l'origine delle sue scelte: il potente desiderio di vendetta, che la indurrà a ritardare il ritorno al Luogo Verde e a unirsi a Immortan Joe, leader carismatico e capace, a cui i Figli della Guerra sono fanaticamente votati.

Il film mi è piaciuto molto, a partire da ciò che, a suo tempo, avevo gradito meno in Mad Max: Fury Road, ossia la sceneggiatura. La storia mi è sembrata ben strutturata e coerente: semplice, ma efficace nel raccontare, mostrandoci ogni passaggio del lungo cammino di trasformazione di Furiosa, da bambina innocente, per quanto ben addestrata e fiera, a guerriera determinata e intelligente.

Mi è piaciuta la scrittura dei personaggi: in primis Furiosa, che partiva già da una solida base, ma non era così scontato costruirgli un background credibile e non melenso. Il personaggio è forte e non presenta la classica "crisi alla Rey" che spesso addossano alla protagonista femminile, la comunissima sequenza del mi-hanno-abbandonata-non-so-chi-sono. Furiosa non viene abbandonata, per lei la madre combatte e pianta nella figlia il seme che porterà sempre dentro di sé: il ricordo del luogo da cui proviene, a cui appartiene e che la definisce come essere vivente. La sua educazione iniziale la predispone a essere un soldato; ciò che le capita lungo la via consolidano questa inclinazione, sia naturale, sia acquisita, e la rendono sempre più forte, aggiungendo strati di corteccia a un legno già resistente. Raggiunto l'apice di dolore, il personaggio non si abbandona alla disperazione, bensì al desiderio di vendetta. Mi sono piaciute le due attrici che hanno recitato la parte di Furiosa: Taylor-Joy impeccabile, ma anche l'attrice bambina ha avuto un discreto minutaggio, che ha gestito molto bene.

Mi è piaciuto Dementus, pazzo, lunatico, affabulatore, ipocrita, sconclusionato e crudele. Contribuisce più di chiunque altro a rendere Furiosa ciò che è, involontariamente, però le è anche, in qualche modo, affezionato, rivedendosi in lei. Mi è piaciuta anche la recitazione di Hemsworth, imbruttito dal trucco, ma anche convinto del personaggio, diametralmente opposto al Thor a cui ci ha abituato Casa Marvel (anche se non del tutto, dopo la deriva presa da Taika Waititi).

Mi è piaciuto Jack (Tom Burke), unico personaggio maschile positivo del film, e mi è piaciuto il suo rapporto con Furiosa, in particolare il modo non didascalico, ma estremamente efficace con cui è stato raccontato dal regista.

La regia mi è piaciuta molto: il film è pulito nel racconto e nella messa in scena; è essenziale. Quasi ogni minuto è indispensabile, accresce la pellicola, aggiunge qualcosa alla storia o ai personaggi e questo non era scontato in un'opera di due ore e mezza ー durata che temevo, ma che non si è fatta sentire. Le scene d'azione sono ordinate, quasi troppo poco concitate, con sequenze quasi coreografate, come avevo osservato in Fury Road. Tornano i combattimenti su strada, i saltellanti Figli di Dio e mezzi di trasporto che si rivelano armi mortali: emozionante.

Il comparto visivo dà spettacolo, con una fotografia luminosa e brillante, trucco e costumi validi; mi è sembrato più sottotono il sonoro, ma potrebbe essere dovuto alla piccola sala in cui l'ho visto...la prima volta. In effetti meriterebbe una seconda visione in una sala IMAX.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

giovedì 16 maggio 2024

Cattiverie a domicilio: una commedia deliziosa

 Un film delizioso e tratto da una storia vera (un caso di cronaca relativamente noto, capitato in Inghilterra negli anni Venti del secolo scorso) è Cattiverie a domicilio di Thea Sharrock, sceneggiato da Jonny Sweet.


A Littlehampton iniziano ad arrivare una serie di lettere infamanti a Edith Swan (una spettacolare Olivia Colman) e la colpa è assegnata immediatamente all'unica donna del paese che non vive di timorati principi. Rose Gooding (Jessie Buckley), infatti, è forestiera (irlandese), vive con la figlia e un uomo (Malachi Kirby) che non è suo marito e ha un linguaggio sboccato e franco che le valgono subito dei nemici nel periodo e nel quartiere in cui vive.

Rose è arrestata e la polizia non nutre dubbi sulla sua colpevolezza, malgrado le incongruenze che tenta di far rilevare la "donna poliziotto" (naturalmente vista con sospetto e non ancora accettata come figura di livello pari al poliziotto uomo nel 1922) Gladys Moss (Anjana Vasan). Una prova a favore di Rose sarebbe la calligrafia, che sfortunatamente al tempo non era accettata nei tribunali; tuttavia questa e altre particolarità del caso valgono affinché un gruppo di donne del paese, compresa Gladys, credano a Rose.

Rose esce su cauzione e in quel momento un numero molto maggiore di missive piove su Littlehampton, che sale alla ribalta della cronaca nazionale. Si scoprirà chi è a mandare le lettere?

Io la soluzione l'avevo indovinata abbastanza rapidamente; è stato così anche per voi?

La commedia è molto carina, resa interessante dal punto di vista psicologico sui vari personaggi, soprattutto su Edith, la zitella eroica che sopporta stoicamente le parole cattive che riceve, sopraffatta dalla religione e da un padre padrone (Timothy Spall). Anche Rose ha una sua storia alle spalle, che non sarà mai del tutto chiarita. E le storie di entrambe riveleranno segreti nascosti.

Attraverso l'opera di Gladys, l'indagine prenderà le pieghe del giallo, ma non solo. Il suo arco narrativo non approfondisce solo la storia familiare della donna (figlia di poliziotto e dunque desiderosa di dimostrarsene all'altezza) ma consente anche di parlare di stereotipi di genere. Questo aspetto, in effetti, è analizzato anche grazie a Rose, a Edith e ad altre delle donne che compaiono nella storia, per esempio Ann, che spesso è giudicata solo per come appare.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 3/4 una commedia leggera, ma non troppo e molto divertente nella sua risoluzione

mercoledì 1 maggio 2024

Addio, Luca: the Challengers

 Non ho ancora visto l'acclamato Chiamami col tuo nome, ma dopo Bones and All e, adesso, The Challengers, penso di poter chiudere col regista siciliano.

Perché? Perché The Challengers è uno dei film più noiosi che abbia visto negli ultimi tempi (o forse nella mia vita).


La storia, a dirla tutta, sarebbe stata molto interessante, come sembrava dai trailer e dalle interviste (per esempio quella di Fabio Fazio ai tre protagonisti del film): un triangolo amoroso, dove il tennis è metafora di dinamiche relazionali. Gli stessi personaggi, in particolare Patrick, che del trio è quello più bilanciato, se lo dicono fra di sé in battute come

"Ma voi parlate sempre di tennis." (voce della verità, in risposta alla battuta di Zendaya "Adesso stiamo parlando di tennis").

oppure

"Stiamo parlando di tennis?"

Succede, infatti, che i due giovanissimi amici e compagni di accademia tennistica, Patrick (Josh O'Connor) e Art (Mike Faist) vincono in coppia un torneo juniores, al quale incontrano anche la carismatica, talentuosa e bellissima Tashi (Zendaya). Qua si incastra la famosa scena del trailer, col bacio a tre, metafora di tutto ciò che sarà con la ragazza e tra di sé. Entrambi pazzi di lei, alla partita che li vede avversari il giorno successivo si sfidano per averne il numero e uscirci insieme.

Da qui partono relazioni, gelosie, invidie sportive e non, ripicche, scorrettezze di vario genere, scontri fuori e dentro ai campi che durano anni, fino a che Patrick e Art si ritrovano di nuovo, tredici anni dopo, uno di fronte all'altro, in un challengers, un torneo di bassa categoria (così ho capito). Al primo servono i soldi che ricaverebbe dalla vincita, al secondo un'iniezione di fiducia perché, ormai a fine carriera come professionista, ma senza aver vinto l'US Open (non che io sappia cosa sia, più di quanto sapevo cosa fosse il challenger). Anche in questo caso, non è solo una partita di tennis.

Ho trovato la costruzione della trama francamente interessante, col montaggio che salta dal presente a flashback situati in anni diversi, aggiungendo sempre un pezzettino di storia, svelandoci i retroscena un po' alla volta.

L'altro aspetto che ho trovato riuscito sono i personaggi, molto ben definiti e sfaccettati, anche loro da scoprire strato per strato (la similitudine rimanda alla cipolla di Shrek), via via che il triangolo ci viene rivelato da tutte le angolazioni. Tashi, dopo l'infortunio che le ha distrutto la carriera, diviene allenatrice e continua a vivere di tennis; è una macchina, che vede solo l'obbiettivo davanti a sé, a costo di passare su qualunque cosa. Ma è completamente senza sentimenti fino in fondo? Sicuramente è il suo personaggio la vera protagonista, il perno su cui ruota il triangolo, ma anche il film stesso.

Patrick è scanzonato, pieno di risorse, sembra il più sincero fra gli elementi della triade, anche se, caro Guadagnino, quindici scene in meno in cui far fare a O'Connor il suo adorabile mezzo sorriso, secondo me si potevano girare. Art, anche lui apparentemente un robot sul campo di tennis, è il personaggio più difficile da inquadrare (almeno per me) e che forse subisce maggiormente il passaggio dalla fine dell'adolescenza all'età adulta: lo spettatore resta indeciso se sia mai stato manipolatore o se, invece, sia sempre stato fragile.

Finiti gli aspetti del film che ho trovato positivi, oltre al glamour di abiti e acconciature, principalmente di Zendaya, resta da spiegare perché non mi sia piaciuto.

La prima cosa che ho da osservare è che usare un lunghissimo rallenty per lo spostamento dei personaggi che escono dallo spogliatoio o che si allontanano dopo una discussione non lo trovo per niente sensato. Su cosa dovremmo soffermare l'attenzione? Sulle graziose movenze degli abiti di Tashi? In nessuno dei due casi che ho in mente mi serve per sottolineare delle emozioni o qualsiasi altra cosa e, dunque, è superfluo esercizio di stile (naturalmente, per me).

In generale, poi, le scene sono inutilmente lente nelle partite di tennis, che, per me, risultano la parte peggiore del film. Potrei essere di parte, perché non mi piace il tennis, ma in Una famiglia vincente (per fare un altro esempio) gli scontri mi erano sembrati emozionanti. Il tennis a rallentatore, invece, mi è parsa proprio una pessima idea, così come inquadrare per interi minuti gli spettatori che muovono la testa a destra e sinistra nel seguire il match: carino e coreografico, la prima volta che lo fai, nella partita ambientata nel "presente", ma quando scene intere sono dedicate a Art e Patrick che guardano Tashi, mentre questa è inquadrata unicamente in modo frontale mentre tira avanti a sé la racchetta, la cosa si fa pesantuccia. Meglio il cambio di piani sui protagonisti, che arrivano a essere quasi primissimi, alla Sergio Leone. Di buono, in effetti, c'è stato il gran numero di angolazioni da cui si poteva vedere il gioco nelle partite.

Ma gli incontri non sono la sola cosa noiosa: altre scene sono così tanto prolisse, come quella della festa in cui i nostri eroi si incontrano. In generale ho avvertito una certa claustrofobia da "quand'è che posso fuggire da questa sala" durante la visione. Il film, di due ore e undici (quindi, già parecchio per un film del genere, ossia, di fatto, su una love story) non dico che poteva durare un'ora in meno (dentro di me lo penso), ma almeno 40 minuti sicuramente.

In conclusione,

Cosa mi è piaciuto: trama, personaggi, recitazione, montaggio

Cosa non mi è piaciuto: regia, noioso per la gran parte, lunghissimo

Giudizio: ⭐⭐

mercoledì 27 marzo 2024

I sequel non andrebbero fatti solo per guadagnarci su: Kong Fu Panda 4

 Naturalmente l'idea che suggerisco nel titolo è una priorità per il pubblico, ma un'azienda come la Dreamworks mi risponderebbe che, invece, è proprio quello lo scopo con cui si fanno i film. I sequel, in particolare, servono proprio per fare soldi facili (Kong Fu Panda 4, poi, ha avuto un budget pure modesto, 85 milioni di dollari), trainati dal successo dei capitoli precedenti e con la prospettiva di una larga vendita di merchandise.

Basta il nome per portare al botteghino il pubblico. In questo caso c'era persino qualcosa di più, perché la trilogia di film che era arrivata in sala tra il 2008 e il 2016 era perfetta, azzeccatissima in ogni capitolo, studiata nei particolari e di altissimo livello per storia e animazione.

Vero è che il budget era maggiore di 45, 65 e 60 milioni, rispettivamente, per il primo, secondo e penultimo capitolo. Non era, tuttavia, questo a intimorirmi; avrebbe dovuto. Brutti segnali giungevano dalla casa di produzione, fin dall'ottobre 2023, quando si diffuse la notizia che Dreamworks licenziava il 4% del proprio personale (e a oggi news anticipano che stiano per licenziare un altro centinaio di dipendenti). Non aver investito (verosimilmente) in animatori e doppiatori ha, per esempio, portato a eliminare dalla storia i Cinque Cicloni, che compaiono nei titoli di coda, esclusivamente senza parlare. Questo è un altro gran brutto segno.

Io un po' di timore lo avevo soprattutto perché la storia di Po mi pareva già conclusa e mi domandavo come avrebbero potuto fare di più, giustificando una nuova pellicola. Ci poteva stare la ricerca di un successore, anche se prematuro: obiettivamente era la sola cosa che poteva seguire ai risultati raggiunti dal panda nei precedenti episodi. Il fatto che fossi restia a questa idea, come il Guerriero Dragone del resto, non era una motivazione sufficiente, però, per aspettarmi poco dal nuovo prodotto. Il budget avrebbe dovuto farmi capire che non c'era nessuna intenzione di dare lustro alla storia del protagonista e che non era per un'esigenza di completezza che si giungeva a produrre un quarto film.

Foto "di repertorio" da Gardaland, dove eravamo stati ad Halloween 2020

Che dire? Avrete già capito da questa introduzione che non sono soddisfatta di questo sequel (regia di Mike Mitchell e Stephanie Ma Stin.) e non solo per il minimo sforzo nell'animazione (ci sono pochi combattimenti, messi lì come compitino, per niente esaltanti e anche poco importanti - sono più da serie animata).

La storia, al solito, però è il punto più critico. Quando si devono ritirare fuori i cattivi dei capitoli precedenti già significa che le idee sono poche. Stavolta non solo solo poche, ma anche parecchio tirate per i capelli.

Maestro Shifu (che dispiacere che Eros Pagni, probabilmente a causa dell'età -84 anni-, abbia rinunciato a doppiarlo) comunica a un riluttantissimo Po che deve nominare il prossimo Guerriero Dragone. Nel mentre giunge la notizia del ritorno del primo cattivo della saga, Tai Lung. Ad avvertire Po che si tratta solo di una messa in scena è una piccola volpe, una ladra che si intrufola nel Palazzo di Giada, Zhen. Le sembianze dell'antico nemico sono, infatti, state assunte da una nuova cattiva, la Camaleonte. Zhen viene proprio da Juniper City, dove opera la Camaleonte ed è disposta ad accompagnare Po alla ricerca della nemica, senza sapere che sarà seguito dai suoi due papà, elementi comici della vicenda e anche aiutanti (fanno le veci dei Cicloni, insomma).

Shifu, invece, non segue Po e compare al panda solo nella sua mente, nella forma di consigliere (le classiche voci sulle spalle, sotto forma di angelo e demone).

Eliminando di fatto i compagni di lotta dei precedenti capitoli, l'animazione può concentrarsi su Po, Zhen, i papà -panda e oca- e la cattiva (oltre a una serie di comparse, tra cui un bradipo, doppiato da Ke Huy Quan). Si vedono i cattivi dei precedenti film, ma solo Tai Lung è doppiato.

Oltre alla pigrizia nella creazione del cattivo, che di fatto ricicla aspetti e mosse da quanto già creato nei precedenti capitoli (col classico entusiasmo di Po davanti a tutto quello che riconosce come Kong Fu - ma questo espediente l'hanno già usato negli altri film, quindi continua a mancare l'originalità), c'è un problema di credibilità, un enorme problema di credibilità. La Camaleonte vuole rubare il kong fu agli altri, perché non ha trovato nessuno disposto a insegnarglielo, perché era troppo piccola. In compenso è esperta di magia. Inoltre, tiene in scacco i cattivi della città con la minaccia di buttarli di sotto dalle scale.

1) Maestro Pollo e Mantide sono piccoli quanto e più di lei, eppure qualcuno gli ha insegnato il kong fu o, comunque, lo hanno imparato;

2) che razza di minaccia sarebbe? ma, soprattutto, se riesce a fare del male e a tenere il potere senza conoscere il kong fu, perché ci tiene tanto a ottenerlo - prenderlo, badiamo bene, non impararlo-?

A questo si aggiunge che Zhen sa il kong fu, o per lo meno sa battersi, senza maestri, tenendo testa a Po...allora non serve assolutamente a nulla padroneggiare tali tecniche?

Non c'è coerenza ed è un film trascurato, questo. C'è poco di tutto: la sceneggiatura si limita a inserire gli elementi necessari un po' alla Boris, ma senza che abbiano senso. Po, per esempio, dovrebbe diventare il Guardiano della Valle e sembra che accetti il suo nuovo status, ma la sua crescita non è molto costruita. Il plot twist che dovrebbe esserci, inoltre, è riciclato anch'esso e non sorprende.

L'unica cosa che resta di positivo sono le situazioni comiche, che, malgrado tutto, risultano divertenti, ma non è abbastanza.

Giudizio: ⭐⭐Questo film manca di cuore e non è la prima volta che viene detto di un prodotto di una major.

lunedì 18 marzo 2024

Il secondo capitolo di Dune è un film bellissimo

 Torna al cinema Denis Villeneuve e ci porta di nuovo ad Arrakis in Dune: parte due. Come il primo film, è co-scritto e diretto dal regista canadese. La storia è basata sulla saga di Frank Herbert, che si compone di sei libri.


Quando ho visto Dune: parte uno ancora non avevo (ri)aperto il blog, quindi non ho parlato del primo film, che, tutto sommato, mi era piaciuto. L'avevo trovato un filo lento, ma molto godibile e spettacolare. Il mio genere non è sicuramente la fantascienza, ma la storia mi aveva abbastanza intrigata.

Avevamo lasciato, al termine di questa prima parte, Paul Atreides (Timothée Chalamet) e sua madre, Lady Jessica (Rebecca Ferguson), nel deserto, privati della protezione della loro famiglia d'adozione e dei loro amici (sterminati) e affidati al benvolere dei Fremen, il popolo del deserto.

Li ritroviamo esattamente qui, in marcia per raggiungere il rifugio di questo popolo di guerrieri semi-nomadi, e bisognosi di trovare il proprio posto nel nuovo gruppo di cui stanno per entrare a far parte: Jessica, in quanto Bene Gesserit, come Reverenda Madre della comunità, mentre Paul si addestra a diventare un loro guerriero, un Fedaykin. Presto, il capo Stilgar (Javier Bardem) e chi crede nelle profezie delle Bene Gesserit vedrà in Paul il Lisan al-Gaib, destinato a rendere libero il popolo Fremen; mentre la guerriera Chani (Zendaya) si innamorerà di Paul.

A questo filone formativo e di rivelazioni del nucleo madre-figlio, si intrecciano i piani degli avversari di Paul. Da un lato il barone Harkonnen (Stellan Skarsgard) e i suoi nipoti, Rabban (Dave Bautista) e Feyd-Rautha (Austin Butler) hanno il loro da fare a gestire Arrakis e la produzione di spezia (meno centrale in questa narrazione, rispetto al precedente film, in cui era stata introdotta); da un altro l'Imperatore (che emozione rivedere Christopher Walken in una pellicola a ottant'anni) e sua figlia (Florence Pugh) devono fronteggiare le conseguenze di aver appoggiato gli Harkonnen nella distruzione del casato Atreides; infine, altre Bene Gesserit, che ormai da millenni hanno i loro piani per il destino dell'universo, portano avanti i propri interessi.

Paul subisce notevoli trasformazioni in questa seconda parte. L'abbiamo lasciato nel deserto, orfano di padre, senza i suoi uomini e maestri, deprivato delle sue certezze, del suo status, ricercato dalla famiglia Harkonnen. Deve farsi amici degli stranieri e dovrà prendere in mano il proprio destino di successore degli Atreides e persino di qualcosa di più (il Kwisatz Haderach creato dal potere e dalle arti delle Bene Gesserit). Ribalterà dunque la sua condizione, costruirà la sua via e la sua figura, proprio mentre la casata rivale completerà il proprio ciclo in modo del tutto diverso. Il protagonista si ritrova dunque non solo a imparare nuovi usi, costumi, linguaggio e modi di combattere, ma, soprattutto, è dentre di sé che dovrà operare importanti riflessioni, battaglie e cambiamenti.

Partiamo subito con una considerazione sulla produzione. Dopo aver realizzato un prodotto visivamente eccellente, che ai precedenti premi Oscar si era portato a casa sei statuette (fotografia, colonna sonora, sonoro, montaggio, scenografie ed effetti speciali) su undici nomination, il livello è stato confermato se non superato. La possibilità di riprendersi, al prossimo giro, le stesse vittorie (e forse di più) sono altissime.

Per esempio la regia è stata molto bella, con inquadrature veramente suggestive. Ancora è prematuro esprimere favoritismi, ma Villeneuve è già stato candidato in passato alla regia per Arrival, mentre per Dune: part one fu candidato alla sceneggiatura e per la produzione del film.

Greig Fraser restituisce nuovamente una fotografia sbalorditiva, a cui si prestano benissimo i paesaggi del deserto sabbioso; Hans Zimmer dà vita a una colonna sonora potentissima, che esalta ogni fotogramma della narrazione e anche il sonoro è notevole. Visivamente e a livello di spettacolo d'intrattenimento si tratta di un opera imponente, con scene magniloquenti ed epiche. La visione in sala IMAX è stata quanto mai necessaria e il prezzo del biglietto è stato ben speso (malgrado abbia ricevuto due pareri sul fatto che esaltasse immagine e suono pure troppo, ma era un po' questo lo scopo...).

Anche il cast è stato importante, anche se l'aggettivo corale per descrivere questa narrazione non mi convince: ci sono molti attori, sì, ma non altrettanti punti di vista, secondo me. Molti nomi erano già presenti nella prima pellicola, ma ci sono state aggiunte (la famiglia imperiale, il secondo nipote Harkonnen, Léa Seydoux e Anya Taylor-Joy) e defezioni (Oscar Isaac, Jason Mamoa). Ho trovato gli attori veramente bravissimi, con speciale plauso - per me - a Ferguson (una certezza), Pugh (molto precisa), Bardem (veramente tanto nella parte), Bautista (che non nasce attore, ma che negli anni si è molto perfezionato) e Butler (già con Elvis aveva fatto un bel lavoro, ma qua mi è piaciuto e mi ha convinta di più).

La storia copre un arco narrativo molto lungo, narra svariati eventi e mutamenti, anche politici, e lo fa in un tempo piccolo - meno di una gestazione -, forse troppo corto perché sia solidamente credibile. Questo, però, è vero se ci fermiamo a pensare solo in termini di mesi. La costruzione delle vicende per me ha funzionato e i tempi cinematografici c'erano. Il ritmo, in particolare, è cauto e dà ampio respiro alla narrazione: è lento (e questo è il solo difetto che trovo a questo film, per quanto importante), ma non mi ha mai annoiata. Nondimeno, questa lentezza si è fatta sentire, rendendomi la visione un po' claustrofobica (a un'oretta ancora dalla fine, una sbirciatina all'orologio l'ho data). Non è propriamente grave, ma non è un film che scorre senza che ce ne si accorga; del resto due ore e quarantacinque sono pur sempre tante e posso affermare di averle percepite tutte.

Sostanzialmente il film ha gli stessi pregi e difetti del primo (che infatti misurava solo dieci minuti meno del sequel), con una maggiore maestosità, se possibile, dovuta al proiettarsi della vicenda in un'altra prospettiva cosmica e al ribaltamento di poteri, con il protagonista che da fuggiasco e schiacciato assurge a messia e leader.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ Un gran bel film