martedì 28 ottobre 2025

Un thriller psicologico alla Guadagnino: After the hunt

 Il terzo film che vedo di Luca Guadagnino è After the hunt, film di Amazon presentato fuori concorso alla mostra del cinema di Venezia.

Le precedenti esperienze che ho avuto col regista palermitano sono state infelici: di Bones and All e Challengers ho parlato in separata sede e non capisco perché abbia dato una terza chance a questo autore, ma ho fatto bene.

La locandina del film annuncia già una caratteristica che mi è piaciuta molto: la frammentarietà dei punti di vista. La complessità di una vicenda o di un'esistenza sta nel fatto che si compone di tante piccole facce, articolate, stratificate, molto spesso nascoste e su questo si sviluppa la narrazione di questo film.

All'apparenza c'è un fatto molto preciso: il professor Hank Gibson (Andrew Garfield in un ruolo molto diverso dai suoi soliti - piuttosto intenso, anche se non mi ha del tutto convinta) "oltrepassa il limite" con una delle studentesse di Yale (Ayo Edebiri), la ricca Maggie Price, che lo racconta alla professoressa con cui ha la tesi. E questo basterebbe per farci chiedere: chi mente dei due se una dice che l'ha fatto e l'altro nega recisamente? Ma c'è molto più di questo. La protagonista del film, infatti, non è la studentessa e non è il professore, ma una magnetica (e - vogliamo dirlo? - bellissima a 58 anni) Julia Roberts, ma quello che (forse) è accaduto - e, tranquilli, del tutto non lo sapremo mai nemmeno alla fine del film, anche se degli indizi ci sono - non è una vicenda collaterale, ma totalmente centrale e inglobante il suo personaggio.

La professoressa Alma Imhoff sta rivaleggiando proprio col collega e amico intimo Hank per la cattedra di filosofia e, come le spiega il marito Frederik (Michael Stuhlbarg che in Bones and all mi era piaciuto così tanto e che è favoloso anche in questa pellicola), psicanalista, sia Hank, sia la (apparentemente) brillante Maggie sono ammaliati (e forse di più) da Alma, ecco perché lei permette loro di avvicinarsi alla sua figura altrimenti algida e inarrivabile. 

"Tu tendi a scegliere le persone perché ti adorano, non perché abbiano reali meriti di qualche tipo."

Julia Roberts gestisce un personaggio sofferente (fisicamente, per dei dolori addominali che la perseguitano, e psicologicamente, tormentata dal suo passato, sotto stress e guidata solo dal desiderio e dall'ambizione). Solo? No, non solo.

Piano piano, perché Guadagnino non è cambiato, è lentissimo (sempre al limite dell'esasperante o già oltre), come un fiore che si schiude a rivelare, petalo dopo petalo, il suo contenuto, scorgiamo una nuova sfaccettatura del personaggio, un segreto nuovo, un nuovo bisogno, una nuova fragilità, nascosta dalla maschera di perfezione, autocontrollo e mondanità che Alma porta ogni giorno.

Trovo che il personaggio sia scritto benissimo, ma non solo il suo: il marito devoto e perfetto, ma non succube e che conosce sua moglie più di quanto lei creda e l'accetta com'è; il migliore amico, così spavaldo e brillante, ma che sotto sotto nasconde altri lati, intenzioni e desideri, eppure forse si era accorto lui di qualcosa che era sfuggita ad Alma (se poi le era sfuggito davvero); e poi Maggie Price. Un'altra donna scritta molto bene e anche recitata bene: una figura complessa, che mai si capisce quanto reale e quanto finta; quanto viziata figlia di papà e quanto autentica in quello che sente e che crede. Tutto rimane sempre tra apparenza, bugie, segreti ben nascosti e persino rubati e manipolazione, perché una cosa appare in modi diversi a seconda di come la si racconta. E forse stiamo tutti solo recitando una parte. Pirandello docet. Si aggiunge anche una componente di conflitto generazionale con una precisa denuncia della fragilità dei nuovi giovani adulti (di cui tra l'altro si sente parlare sempre più spesso).

"Non mi sento più a mio agio a parlare qui con te."

"Non tutto ha lo scopo di metterti a tuo agio."

Non sentite anche voi nell'aria profumo di candidature a qualche premio? Azzarderei quelle di Julia Robert, Ayo Edebiri e Nora Garrett per la sceneggiatura, ma penso che anche Michael Stuhlbarg ci potrebbe arrivare. 

E non sono da meno le scenografie (la casa di Alma e Frederick è un gioiello) e i costumi, mentre una delle cose che mi è risultata più fastidiosa, soprattutto a inizio film è un sonoro invasivo, che scava e contribuisce (sapientemente, è vero) ad accrescere la tensione, quel ticchettio terribile che dura per tutta la prima parte del film (che mostra la quotidianità della vita di Alma) fino al titolo.

Ma veniamo a quello che non mi è piaciuto, invece: Guadagnino. Tornano i primissimi piani nei momenti di intensità emotiva e alcune riprese molto "ondeggianti" che assecondano la confusione del personaggio che la sta vivendo. La macchina da presa "segue da vicino" i sentimenti dei personaggi e aiuta a narrarli. La conduzione è lenta e ripetitiva, anche inutilmente, poiché alcune dinamiche ripetute contribuivano tra poco e niente al racconto e questo, almeno per me, è un peccato capitale. Non c'è ragione di far durare un film un'ora e venti minuti, specialmente con un ritmo così lento e alcuni momenti che sono sfruttati sì per sottolineare un certo aspetto, un certo significato (ma forse ci arrivavamo lo stesso).

Cosa mi è piaciuto: sceneggiatura, cast, scenografie, costumi

Cosa non mi è piaciuto: regia, ritmo, durata

Giudizio: molto molto molto interessante e ben recitato, ottima scrittura dei personaggi e del disvelamento, ma lungo e lento ⭐⭐⭐

lunedì 6 ottobre 2025

Andate a vedere La voce di Hind Rajab

 A un anno (e poco più) dall'ultima recensione di questo blog, torno con un film che mi ha chiesto prepotentemente di diffondere il verbo. 

Volevo già tornare, perché mi mancava raccontare, anche, di cinema, dire la mia su quello che guardo, dopo una stagione che ho passato a vedere film, ma tenendomi tutto dentro. Ecco, già mi mancava qualcosa, ma stanotte proprio non ho chiuso occhio dopo aver visto La voce di Hind Rajab di Kawthar ibn Haniyya (già Leone d'argento per la giuria a Venezia e che tra i produttori ha anche Brad Pitt e tra gli esecutivi  Alfonso Cuarón, Joaquin Phoenix e Roney Mara).


Premetto che sapevo perfettamente cosa stavo per andare a vedere (una delle rarissime volte), essendo un fatto di cronaca del gennaio 2024 (non mi preoccuperò di fare spoiler infatti) e sapendo che il film sarebbe stato in arabo per mantenere i file audio originale delle telefonate tra vittime e centro di coordinamento della Mezzaluna Rossa Palestinese.

Sì, lo sapevo che sarebbe stata la voce di quella bambina di cinque anni che chiedeva aiuto mentre le sparavano addosso, nascosta dentro la macchina degli zii e dei cugini con intorno i cadaveri dei sei parenti morti e appena fuori i carri armati israeliani, ma non ero veramente pronta a sentire la voce minuta di una bambina dell'asilo chiedere:

"Vienimi a prendere."

"Ho paura."

"Morirò presto."

"Mi sparano."

"Venitemi a prendere."

"Sono sola."

"Ho paura del buio."

Non è un'attrice, è proprio la voce di Hind e per noi sono solo un'ora e un quarto di audio su 90 minuti totali di pellicola, ma gli operatori del centro di Ramallah della Mezzaluna Rossa (loro sì, interpretati da attori, salvo nei momenti in cui si vedono o si sentono le registrazioni di quella folle giornata del 29 gennaio 2025) passano tre ore al telefono con la bambina, tentando di rassicurarla e nella paradossale situazione di non poter inviare soccorsi perché nelle aree sotto assedio sparano anche sulle ambulanze.

Oltre alla straziante conversazione fra la bambina terrorizzata e gli operatori telefonici, frustrati dall'impotenza, annichiliti da una tragedia più grande di loro e che non sanno come non far trasparire la loro disperazione affinché Hind resti calma, c'è un interessante punto di vista sviscerato in ogni dettaglio dal film, che riesce a scrivere ogni passaggio molto bene, non didascalico, ma chiaro: i soccorsi della Mezzaluna Rossa sono schiacciati dalla burocrazia militare e in grave pericolo.

Gli operatori che tengono impegnata la bambina al telefono implorano, urlano, si arrabbiano, litigano furiosamente e crollano, emotivamente sfiniti, perché i soccorsi non possono partire, altrimenti finirebbero uccisi come altri colleghi prima di loro, se non viene concordato un percorso sicuro e non è ricevuto un via libera (green light). Il percorso sicuro deve essere ottenuto attraverso la mediazione di un intermediario (uno alla volta o Croce Rossa o Ministero della Salute) e poi di un ulteriore intermediario con l'esercito che risponde al secondo intermediario, che risponde al primo, che comunica alla Mezzaluna. Folle? Certo. E se si interrompe per qualche ragione questa catena? Si ricomincia daccapo. E se la bambina non risponde per dieci minuti? Si ferma tutto. E se nel frattempo le strade intorno sono crollate? Va aggiustato l'itinerario chiedendo nuovi consensi. E come si risponde a una madre o a uno zio che urlano al telefono perché ovviamente non capisce per quale motivo non si può inviare un'ambulanza? No, nelle altre zone le mandiamo, ma a Gaza non si può fare, ci sparano addosso.

Non è un segreto come finisce questa storia: ha fatto il giro del mondo, ripresa proprio perché fosse mostrata sui social, così da spingere l'opinione pubblica e ottenere il percorso sicuro per mandare un'ambulanza dalla bambina. 

Il cinema (tunisino, ma in coproduzione con Francia, Regno Unito e USA,) apre la porta al documentario quando nello schermo del telefono che riprende la scena compaiono proprio i personaggi ripresi in quel 29 gennaio al telefono con Hind: le riprese reali si sovrappongono agli attori palestinesi che recitano, con le stesse movenze dei veri Umar, Rana, Mahdi, Nisrin, gli stessi abiti e volti molto somiglianti. Sono bravissimi gli attori e partecipiamo al dolore e alla rabbia dei protagonisti, che non sanno come affrontare né le difficoltà organizzative, né lo stress psicologico proprio e il loro terribile compito di mentire per tre ore a una bambina di cinque anni sul fatto che l'avrebbero portata via da lì molto presto. La regista tunisina (il film è il candidato della Tunisia per il miglior film internazionale agli Oscar del 2026) ha cercato di rimanere esterna e asciutta, affinché protagonisti fossero quei file audio e quella voce.

Vuoi una definizione di bambino? Ecco: è quella creatura che ti chiede mentre le sparano perché non puoi chiedere a tuo marito se ti accompagna a prenderla per portarla via. 

Vuoi una definizione di guerra? Ecco: è quella situazione in cui morirai se vorrai andare a salvare la bambina; è il finale di questo film (te lo spoilero anche se non lo vai a vedere, quindi, ti prego, vai al cinema perché lo dovrebbe vedere tutto il mondo questo film, anche se non sei pronto, come non lo ero io), ovvero dei soldati che hanno visto benissimo agli infrarossi che in quella macchina è rimasto un corpicino vivo, forse hanno pure visto gli appelli social, ma aspettano l'arrivo dei soccorsi, faticosamente inviati richiedendo un percorso sicuro che è stato burocraticamente avvilente da ottenere, per sparare, così se ne possono uccidere altri due, mentre per tre ore hai psicologicamente torturato la bambina di cinque anni che hai comunque deciso di uccidere.

Questo è più spietato e più potente di un Diario di Anna Frank, perché di Anne avevamo solo le parole, ma di Hind abbiamo anche quella vocina spaventata che ho risentito per tutta la notte.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐

lunedì 16 settembre 2024

Maratona Beetlejuice

 Per qualche ragione non avevo mai visto il film di Tim Burton del 1988, così ho fatto un esperimento. In rapida successione ho visto il primo Beetlejuice il giovedì sera, gentilmente messo a disposizione da Prime Video, e sono andata al cinema il venerdì per vedere Beetlejuice  Beetlejuice. Com'è cambiato il cinema di Burton in trentasei anni? Ovviamente tanto, a partire dagli effetti speciali naturalmente, ed era proprio ciò che ero curiosa di scoprire.

Il primo film, proprio stile anni Novanta, è invecchiato un po', ma non esageratamente considerando i pupazzoni e le battute un pochino demodé. Protagonisti corali della storia sono sia i coniugi Maitland, sia la famiglia (abbastanza disfunzionale) dei Deetz. Dopo un assurdo incidente dei primi, Adam (Alec Baldwin) e Barbara Maitland (Geena Davis) si ritrovano da spettri a contendersi il dominio della casa con i secondi, mentre sono ancora alle prese con ambientarsi nel limbo tra vita e morte (con tanto di manuale dedicato del "recente deceduto"). I trapassati proprietari amavano la loro casa esattamente com'era, mentre Charles (Jeffrey Jones) e Delia (Catherine O'Hara) Deetz sono eccentrici e moderni e desiderano cambiarla radicalmente. Completamente diversa dal padre e dalla matrigna, invece, è Lydia Deetz (Winona Ryder), malinconica e gotica e capace di vedere le presenze dell'altro mondo e della casa, verso le quali è più bendisposta che verso i suoi parenti. Forse è proprio lei il personaggio che è rimasto più impresso negli anni, oltre, naturalmente, al protagonista negativo, ma divertente e irriverente, interpretato da Micheal Keaton.

Il demoniaco Beetlejuice entra in scena quando Adam e Barbara si rendono conto che nessuno dei loro tentativi di terrorizzare i Deetz funziona, mentre tutt'altro che ortodossi sono i metodi di colui che si fa chiamare "bioesorcista" e che può essere evocato solo pronunciando il suo nome tre volte.

Cos'ha di adorabile questo film, tanto che è diventato un cult?

La storia è frizzante ed eccentrica e ho adorato il modo in cui è raffigurato l'oltretomba, popolato di cadaveri immobilizzati nel momento del trapasso e spesso intenti a fare la coda per ricevere informazioni o vedere i propri "consulti" (come il personaggio interpretato da Sylvia Sidney) per ricevere aiuto. Probabilmente la cosa che ho preferito, però, sono i vermi delle sabbie in stop motion che omaggiano l'opera di Frank Herbert. Inoltre i personaggi sono, ognuno a suo modo, adorabili: totalmente sopra le righe i Deetz, teneri e pisseri (e anche bellissimi) i Maitland. Keaton poi è veramente straordinario, a suo agio nell'interpretare un personaggio istrionico e comico. Anche la colonna sonora di Danny Elfman è particolare (il tema dei titoli iniziali, per esempio, è molto caratteristica).

Cosa non ha superato la prova del tempo?

Sostanzialmente le battute ormai suonano stantie al nostro gusto attuale, così come alcune scene un po' grottesche, che tuttavia forse costituiscono uno tra i perché della fama del film: la scena del ballo a cena sulla canzone Day-O, ma anche il bioesorcismo di Beetlejuice.


Cambiando adolescente il risultato non cambia?

Un po' cambia. La storia della famiglia Deetz evolve: ritroviamo Lydia e Delia, la prima ha fatto carriera per le sue capacità medianiche, ma ha più di un problema di stabilità emotiva (come da adolescente, ma con meno grinta), la seconda continua a fare arte a modo suo. Non torna a far parte del cast, invece, Jeffrey Jones, ma hanno trovato un modo delizioso di mantenere nella storia il suo personaggio. Il nuovo acquisto della famiglia, invece, è l'adolescente Astrid (Jenna Ortega), orfana di un padre da cui Lydia si era comunque già separata. Astrid non crede che la madre possa vedere e parlare con le presenze dell'Aldilà ed è in conflitto con lei e con la sua relazione con Rory (Justin Theroux).

Per tutto il primo tempo non succede quasi niente, tranne la comparsa in scena di Jeremy (Arthur Conti), che fa provare qualche brivido ad Astrid, di una femme fatale interpretata da Monica Bellucci, che è sulle tracce di Beetlejuice, e del detective-ex-attore-cinematografico di Willem Dafoe, che invece cerca di rintracciare la Bellucci. La scena in cui quest'ultima si "rimonta" pezzo per pezzo è la mia preferita del film (anche se poi non serve a molto altro), mentre Dafoe regala risate a ogni apparizione in scena.

Il secondo tempo, per fortuna, parte e mi convince, anche se la scrittura che porta dalla prima noiosissima parte alla seconda, piena di intersezioni tra le storie e ritmo, procede un po' a scatti (e forse anche a caso). Rispetto al primo film Keaton è più presente e ha sempre la stessa ossessione del primo film.

Tutto sommato la storia e molte trovate mi sono piaciute, oltre agli omaggi al primo Beetlejuice (a partire dall'auto dei Maitland - che non sono più nella storia- sotto al ponte del plastico in soffitta), però la scrittura ha scricchiolato parecchio e non mi è piaciuto né il personaggio (l'adolescente musona studiosissima e impegnata, che però si rivela veramente troppo ingenuotta), né la recitazione di Jenna Ortega, molto monoespressione.

Giudizio: discreto intrattenimento, mi sono divertita, però molto pigra la scrittura nel far procedere la storia, con troppa distanza tra un primo tempo deserto e inutile e il secondo, che vale la pena.

N.B.: preparatevi al terzo...non penserete che il nome di Beetlejuice non debba essere evocato tre volte anche nel titolo, vero?

giovedì 27 giugno 2024

Inside Out 2: una bella visione dell'adolescenza e dintorni

 Ce la ricordiamo tutti l'adolescenza, vissuta in prima persona o "ripassata" attraverso le esperienze con figli o nipoti?

Pixar la porta una volta ancora sugli schermi, rendendo questo periodo della vita (tanto delicato e considerato solo come una scocciatura, eppure fondamentale per modellare la vita di un futuro adulto) protagonista del sequel di Inside Out (film che ho visto una sola volta, a causa del gigantesco trauma provocato da Bing Bong - chi ha visto, sa), diretto da Kelsey Mann. Era già successo con Red, che aveva come fulcro il menarca della protagonista. Questa tendenza devo dire che mi sta piacendo.

Questo sequel - a nove anni di distanza dall'originale - era particolarmente atteso (e il primo film molto amato) anche se non mi aspettavo che arrivando al cinema del mio paese nel pomeriggio sarei rimasta fuori per sold out! Ne sono stata felicissima (un pelo meno di fare due volte il viaggio, ma il segnale è positivo).


Torniamo dentro alla mente di Riley, che alla vigilia del liceo è alle prese con alcuni cambiamenti, non solo ormonali. L'adolescenza non porta con sé solo brufoli e cambi di scuola e situazioni, ma anche nuove emozioni, difficili da gestire, più complesse, meno controllabili e un generale caos.

Nel contesto del film questi cambiamenti si esasperano nel corso di un week end, quello durante il quale Riley e le sue inseparabili due amiche della scuola e della squadra di hokey sono invitate a un programma sportivo nella futura scuola superiore della protagonista. Si tratta di una sorta di breve campus per scoprire talenti. In questo arco di tempo, Riley scopre che la sua rete di amicizie potrebbe cambiare repentinamente. Che accadrà? 

Gioa, Rabbia, Tristezza, Paura e Disgusto, che hanno plasmato, in un certo senso, la Riley bambina e le sue convinzioni (qui lacrimuccia), sono costrette a lasciare il passo a (a essere represse da) Noia (in realtà, alla francese, Ennui), Imbarazzo, Invidia, ma soprattutto Ansia, che intende soppiantare Gioia al comando della vita emotiva di Riley. 

Ne esce fuori un quadro piuttosto verosimile di quel che è il nostro stato emotivo e intendo dire non solo degli adolescenti, ma anche degli adulti. Ci sono momenti in cui per molti di noi l'ansia monopolizza i nostri comandi operativi (a un certo punto assistiamo a questo anche in questo film ed è la seconda volta che un attacco di panico è portato in un film d'animazione, almeno fra quanti ne ho visti recentemente, dopo Il gatto con gli stivali 2 - che ho adorato). Quella paralisi con impossibilità di accesso a ogni altro pensiero è qualcosa che, credo, sia capitato a tutti qualche volta nella vita e la scena che raffigura tutto questo è non solo bellissima, ma anche efficace nella sua rappresentazione.

Il finale e la morale di questo film mi sono piaciuti molto. Anche riguardo al tema di accettare ogni lato di sé, anche quelli negativi, senza rinnegare o vergognarsi di nulla, poiché noi lo siamo in modo integrale, con tutto quel che ci è successo nella vita, la Pixar aveva già detto la sua con Red. C'è molto di psicologico in questo film, dalle emozioni represse all'evitamento, fino all'attacco di panico; giusto proseguo di quanto già affrontato col primo film, che si focalizzava nel mondo emotivo del bambino, quando accettare la propria tristezza e, in senso lato, ogni emozione era il messaggio.

Trovo che, rispetto alla tendenza Disney di mettere al primo posto il messaggio, penalizzando il divertimento, questo lavoro sia superiore. La sceneggiatura di Meg LeFauve (nel team anche del primo film) ha lavorato su una storia strutturata per portare un messaggio, ma è coerente e non forzata.

Non mancano comunque nel film momenti di dolcezza (io mi sono commossa un paio di volte), di risate e anche di avventure, poiché, come nel primo film, si compie un viaggio all'interno della mente di Riley, che esplora aree in parte conosciute e in parte modificate (persino in corso di modifica - sempre colpa dell'adolescenza) e che comporta alcuni ostacoli da superare.

Le nuove emozioni sono ben inserite e, anche se avversano le emozioni più ancestrali, di fatto non costituiscono un vero antagonista nel film, cosa piuttosto normale, poiché si tratta di una convivenza fra emozioni nella stessa mente e dunque fra parti di sé stessi, in fondo. Riguardo alle emozioni più vecchie, sono un po' trascurate Disgusto e Paura, mentre Rabbia ha un pochino più spazio e Tristezza, co-protagonista del primo film, persino qualche scena dedicata, molto divertenti.

Si intravede anche un'ulteriore emozione, Nostalgia, che è costantemente rimandata indietro dagli altri personaggi, poiché precorre troppo i tempi: un'emozione che ha l'aspetto di una fragile nonnina. Ci saranno altri capitoli di questa storia? Potenzialmente i capitoli sono infiniti, in primis perché potremmo vedere la vita da liceale di Riley, il suo approccio con l'amore e altre insicurezze nell'affacciarsi alla vita adulta; la stessa vita adulta, con sesso, maternità, lavoro, preoccupazioni; e via discorrendo, potremmo arrivare fino alla vecchiaia.

Riguardo l'aspetto tecnico del film, il livello delle immagini e dell'animazione è altissimo, come ci aspettiamo sempre da Pixar, con ogni particolare dell'ambiente curato e splendente di colori. A questo si aggiunge un bonus (colpa di Spider-Man: Across the Spider-Verse, che ha lanciato la moda della pluri-animazione nei film d'animazione?): in una certa sequenza ci sono personaggi che appartengono ai ricordi di Riley e che provengono dal mondo dei cartoni animati o dei videogiochi. Questi personaggi hanno disegni (2D) e animazioni propri e "staccati" dalla grafica del film stesso, che è in 3D. 

Attenzione! Andate al cinema a vedere il film, ma non scappate prima che siano finiti i titoli di coda, perché c'è una scena post-credit: niente di fondamentale, ma molto divertente.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

giovedì 30 maggio 2024

La genesi di Furiosa

 Conosco la saga di Mad Max (opera di George Miller, che l'ha ideata, scritta e diretta per intero) solo per il film del 2015, Mad Max: Fury Road, pellicola durante la quale si incontrano il protagonista Max Rockatansky (con le sembianze di Tom Hardy) e Furiosa, personaggio interpretato da Charlize Theron. Il cattivo del film del 2015, inoltre, è Immortan Joe, ma questi ultimi due personaggi non compaiono nella trilogia che vede Mel Gibson interpretare il Guerriero della strada tra il 1979 e il 1985.

Fury Road mi era piaciuto (e ne scrissi nel blog che tenevo all'epoca), con qualche riserva sulla sua candidatura agli Oscar in qualche categoria (principalmente come miglior film, mentre trovavo calzanti le nomination e le vittorie ー sei ー del comparto tecnico).

Furiosa: a Mad Max Saga è il prequel del film Fury Road e, in senso assoluto, è uno spin off della saga principale, in quanto non compare Max Rockatansky. La protagonista è, infatti, Furiosa, imperatrice nel film del 2015, mentre in questo capitolo la vediamo bambina e assistiamo alla sua crescita, fino a diventare pretoriana. Il film è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes, circa una settimana prima della sua uscita mondiale, mostrando un esordio molto timido al box office del primo week end.


Ho apprezzato molto la struttura e la scrittura di questo film, vera origin story (non come quel troiaio di Cruella), del personaggio che porta adesso il volto di Anya Taylor-Joy.

Il film si divide in cinque capitoli, ognuno dei quali costituisce una pietra miliare della crescita della protagonista, rendendolo di fatto un film di formazione.

Inizia in modo molto dinamico, proiettandoci dapprima nel "Luogo Verde" di cui si parla incessantemente durante tutto Fury Road, in quanto motivo scatenante della dinamica centrale della pellicola, poi immediatamente in mezzo all'azione. Dei predoni scoprono il Luogo Verde, una delle poche oasi ricche di risorse in mezzo a un deserto dove scarseggiano acqua, cibo (insieme al carburante le principali merci di queste Terre Desolate), e rapiscono Furiosa, per portarla dal loro padrone, Dementus (Chris Hemsworth). Questo rapimento, le sue immediate conseguenze e il periodo trascorso prigioniera presso un leader violento, sadico, ma anche disorganizzato, tanto da pensare di sfidare Immortan Joe, comportano un traumatico cambiamento di vita per la ragazzina, interpretata da una giovane Alyla Browne. 

Se con Dementus apprenderà la violenza e gli stratagemmi del capo nomade, nel corso della sua crescita incontrerà altri personaggi, che le insegneranno la meccanica e il combattimento su strada, rendendola la macchina da guerra che ci ha affascinato nel 2015. Scopriremo l'origine delle sue scelte: il potente desiderio di vendetta, che la indurrà a ritardare il ritorno al Luogo Verde e a unirsi a Immortan Joe, leader carismatico e capace, a cui i Figli della Guerra sono fanaticamente votati.

Il film mi è piaciuto molto, a partire da ciò che, a suo tempo, avevo gradito meno in Mad Max: Fury Road, ossia la sceneggiatura. La storia mi è sembrata ben strutturata e coerente: semplice, ma efficace nel raccontare, mostrandoci ogni passaggio del lungo cammino di trasformazione di Furiosa, da bambina innocente, per quanto ben addestrata e fiera, a guerriera determinata e intelligente.

Mi è piaciuta la scrittura dei personaggi: in primis Furiosa, che partiva già da una solida base, ma non era così scontato costruirgli un background credibile e non melenso. Il personaggio è forte e non presenta la classica "crisi alla Rey" che spesso addossano alla protagonista femminile, la comunissima sequenza del mi-hanno-abbandonata-non-so-chi-sono. Furiosa non viene abbandonata, per lei la madre combatte e pianta nella figlia il seme che porterà sempre dentro di sé: il ricordo del luogo da cui proviene, a cui appartiene e che la definisce come essere vivente. La sua educazione iniziale la predispone a essere un soldato; ciò che le capita lungo la via consolidano questa inclinazione, sia naturale, sia acquisita, e la rendono sempre più forte, aggiungendo strati di corteccia a un legno già resistente. Raggiunto l'apice di dolore, il personaggio non si abbandona alla disperazione, bensì al desiderio di vendetta. Mi sono piaciute le due attrici che hanno recitato la parte di Furiosa: Taylor-Joy impeccabile, ma anche l'attrice bambina ha avuto un discreto minutaggio, che ha gestito molto bene.

Mi è piaciuto Dementus, pazzo, lunatico, affabulatore, ipocrita, sconclusionato e crudele. Contribuisce più di chiunque altro a rendere Furiosa ciò che è, involontariamente, però le è anche, in qualche modo, affezionato, rivedendosi in lei. Mi è piaciuta anche la recitazione di Hemsworth, imbruttito dal trucco, ma anche convinto del personaggio, diametralmente opposto al Thor a cui ci ha abituato Casa Marvel (anche se non del tutto, dopo la deriva presa da Taika Waititi).

Mi è piaciuto Jack (Tom Burke), unico personaggio maschile positivo del film, e mi è piaciuto il suo rapporto con Furiosa, in particolare il modo non didascalico, ma estremamente efficace con cui è stato raccontato dal regista.

La regia mi è piaciuta molto: il film è pulito nel racconto e nella messa in scena; è essenziale. Quasi ogni minuto è indispensabile, accresce la pellicola, aggiunge qualcosa alla storia o ai personaggi e questo non era scontato in un'opera di due ore e mezza ー durata che temevo, ma che non si è fatta sentire. Le scene d'azione sono ordinate, quasi troppo poco concitate, con sequenze quasi coreografate, come avevo osservato in Fury Road. Tornano i combattimenti su strada, i saltellanti Figli di Dio e mezzi di trasporto che si rivelano armi mortali: emozionante.

Il comparto visivo dà spettacolo, con una fotografia luminosa e brillante, trucco e costumi validi; mi è sembrato più sottotono il sonoro, ma potrebbe essere dovuto alla piccola sala in cui l'ho visto...la prima volta. In effetti meriterebbe una seconda visione in una sala IMAX.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

giovedì 16 maggio 2024

Cattiverie a domicilio: una commedia deliziosa

 Un film delizioso e tratto da una storia vera (un caso di cronaca relativamente noto, capitato in Inghilterra negli anni Venti del secolo scorso) è Cattiverie a domicilio di Thea Sharrock, sceneggiato da Jonny Sweet.


A Littlehampton iniziano ad arrivare una serie di lettere infamanti a Edith Swan (una spettacolare Olivia Colman) e la colpa è assegnata immediatamente all'unica donna del paese che non vive di timorati principi. Rose Gooding (Jessie Buckley), infatti, è forestiera (irlandese), vive con la figlia e un uomo (Malachi Kirby) che non è suo marito e ha un linguaggio sboccato e franco che le valgono subito dei nemici nel periodo e nel quartiere in cui vive.

Rose è arrestata e la polizia non nutre dubbi sulla sua colpevolezza, malgrado le incongruenze che tenta di far rilevare la "donna poliziotto" (naturalmente vista con sospetto e non ancora accettata come figura di livello pari al poliziotto uomo nel 1922) Gladys Moss (Anjana Vasan). Una prova a favore di Rose sarebbe la calligrafia, che sfortunatamente al tempo non era accettata nei tribunali; tuttavia questa e altre particolarità del caso valgono affinché un gruppo di donne del paese, compresa Gladys, credano a Rose.

Rose esce su cauzione e in quel momento un numero molto maggiore di missive piove su Littlehampton, che sale alla ribalta della cronaca nazionale. Si scoprirà chi è a mandare le lettere?

Io la soluzione l'avevo indovinata abbastanza rapidamente; è stato così anche per voi?

La commedia è molto carina, resa interessante dal punto di vista psicologico sui vari personaggi, soprattutto su Edith, la zitella eroica che sopporta stoicamente le parole cattive che riceve, sopraffatta dalla religione e da un padre padrone (Timothy Spall). Anche Rose ha una sua storia alle spalle, che non sarà mai del tutto chiarita. E le storie di entrambe riveleranno segreti nascosti.

Attraverso l'opera di Gladys, l'indagine prenderà le pieghe del giallo, ma non solo. Il suo arco narrativo non approfondisce solo la storia familiare della donna (figlia di poliziotto e dunque desiderosa di dimostrarsene all'altezza) ma consente anche di parlare di stereotipi di genere. Questo aspetto, in effetti, è analizzato anche grazie a Rose, a Edith e ad altre delle donne che compaiono nella storia, per esempio Ann, che spesso è giudicata solo per come appare.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 3/4 una commedia leggera, ma non troppo e molto divertente nella sua risoluzione

mercoledì 1 maggio 2024

Addio, Luca: the Challengers

 Non ho ancora visto l'acclamato Chiamami col tuo nome, ma dopo Bones and All e, adesso, The Challengers, penso di poter chiudere col regista siciliano.

Perché? Perché The Challengers è uno dei film più noiosi che abbia visto negli ultimi tempi (o forse nella mia vita).


La storia, a dirla tutta, sarebbe stata molto interessante, come sembrava dai trailer e dalle interviste (per esempio quella di Fabio Fazio ai tre protagonisti del film): un triangolo amoroso, dove il tennis è metafora di dinamiche relazionali. Gli stessi personaggi, in particolare Patrick, che del trio è quello più bilanciato, se lo dicono fra di sé in battute come

"Ma voi parlate sempre di tennis." (voce della verità, in risposta alla battuta di Zendaya "Adesso stiamo parlando di tennis").

oppure

"Stiamo parlando di tennis?"

Succede, infatti, che i due giovanissimi amici e compagni di accademia tennistica, Patrick (Josh O'Connor) e Art (Mike Faist) vincono in coppia un torneo juniores, al quale incontrano anche la carismatica, talentuosa e bellissima Tashi (Zendaya). Qua si incastra la famosa scena del trailer, col bacio a tre, metafora di tutto ciò che sarà con la ragazza e tra di sé. Entrambi pazzi di lei, alla partita che li vede avversari il giorno successivo si sfidano per averne il numero e uscirci insieme.

Da qui partono relazioni, gelosie, invidie sportive e non, ripicche, scorrettezze di vario genere, scontri fuori e dentro ai campi che durano anni, fino a che Patrick e Art si ritrovano di nuovo, tredici anni dopo, uno di fronte all'altro, in un challengers, un torneo di bassa categoria (così ho capito). Al primo servono i soldi che ricaverebbe dalla vincita, al secondo un'iniezione di fiducia perché, ormai a fine carriera come professionista, ma senza aver vinto l'US Open (non che io sappia cosa sia, più di quanto sapevo cosa fosse il challenger). Anche in questo caso, non è solo una partita di tennis.

Ho trovato la costruzione della trama francamente interessante, col montaggio che salta dal presente a flashback situati in anni diversi, aggiungendo sempre un pezzettino di storia, svelandoci i retroscena un po' alla volta.

L'altro aspetto che ho trovato riuscito sono i personaggi, molto ben definiti e sfaccettati, anche loro da scoprire strato per strato (la similitudine rimanda alla cipolla di Shrek), via via che il triangolo ci viene rivelato da tutte le angolazioni. Tashi, dopo l'infortunio che le ha distrutto la carriera, diviene allenatrice e continua a vivere di tennis; è una macchina, che vede solo l'obbiettivo davanti a sé, a costo di passare su qualunque cosa. Ma è completamente senza sentimenti fino in fondo? Sicuramente è il suo personaggio la vera protagonista, il perno su cui ruota il triangolo, ma anche il film stesso.

Patrick è scanzonato, pieno di risorse, sembra il più sincero fra gli elementi della triade, anche se, caro Guadagnino, quindici scene in meno in cui far fare a O'Connor il suo adorabile mezzo sorriso, secondo me si potevano girare. Art, anche lui apparentemente un robot sul campo di tennis, è il personaggio più difficile da inquadrare (almeno per me) e che forse subisce maggiormente il passaggio dalla fine dell'adolescenza all'età adulta: lo spettatore resta indeciso se sia mai stato manipolatore o se, invece, sia sempre stato fragile.

Finiti gli aspetti del film che ho trovato positivi, oltre al glamour di abiti e acconciature, principalmente di Zendaya, resta da spiegare perché non mi sia piaciuto.

La prima cosa che ho da osservare è che usare un lunghissimo rallenty per lo spostamento dei personaggi che escono dallo spogliatoio o che si allontanano dopo una discussione non lo trovo per niente sensato. Su cosa dovremmo soffermare l'attenzione? Sulle graziose movenze degli abiti di Tashi? In nessuno dei due casi che ho in mente mi serve per sottolineare delle emozioni o qualsiasi altra cosa e, dunque, è superfluo esercizio di stile (naturalmente, per me).

In generale, poi, le scene sono inutilmente lente nelle partite di tennis, che, per me, risultano la parte peggiore del film. Potrei essere di parte, perché non mi piace il tennis, ma in Una famiglia vincente (per fare un altro esempio) gli scontri mi erano sembrati emozionanti. Il tennis a rallentatore, invece, mi è parsa proprio una pessima idea, così come inquadrare per interi minuti gli spettatori che muovono la testa a destra e sinistra nel seguire il match: carino e coreografico, la prima volta che lo fai, nella partita ambientata nel "presente", ma quando scene intere sono dedicate a Art e Patrick che guardano Tashi, mentre questa è inquadrata unicamente in modo frontale mentre tira avanti a sé la racchetta, la cosa si fa pesantuccia. Meglio il cambio di piani sui protagonisti, che arrivano a essere quasi primissimi, alla Sergio Leone. Di buono, in effetti, c'è stato il gran numero di angolazioni da cui si poteva vedere il gioco nelle partite.

Ma gli incontri non sono la sola cosa noiosa: altre scene sono così tanto prolisse, come quella della festa in cui i nostri eroi si incontrano. In generale ho avvertito una certa claustrofobia da "quand'è che posso fuggire da questa sala" durante la visione. Il film, di due ore e undici (quindi, già parecchio per un film del genere, ossia, di fatto, su una love story) non dico che poteva durare un'ora in meno (dentro di me lo penso), ma almeno 40 minuti sicuramente.

In conclusione,

Cosa mi è piaciuto: trama, personaggi, recitazione, montaggio

Cosa non mi è piaciuto: regia, noioso per la gran parte, lunghissimo

Giudizio: ⭐⭐