Non ho ancora visto l'acclamato Chiamami col tuo nome, ma dopo Bones and All e, adesso, The Challengers, penso di poter chiudere col regista siciliano.
Perché? Perché The Challengers è uno dei film più noiosi che abbia visto negli ultimi tempi (o forse nella mia vita).
La storia, a dirla tutta, sarebbe stata molto interessante, come sembrava dai trailer e dalle interviste (per esempio quella di Fabio Fazio ai tre protagonisti del film): un triangolo amoroso, dove il tennis è metafora di dinamiche relazionali. Gli stessi personaggi, in particolare Patrick, che del trio è quello più bilanciato, se lo dicono fra di sé in battute come
"Ma voi parlate sempre di tennis." (voce della verità, in risposta alla battuta di Zendaya "Adesso stiamo parlando di tennis").
oppure
"Stiamo parlando di tennis?"
Succede, infatti, che i due giovanissimi amici e compagni di accademia tennistica, Patrick (Josh O'Connor) e Art (Mike Faist) vincono in coppia un torneo juniores, al quale incontrano anche la carismatica, talentuosa e bellissima Tashi (Zendaya). Qua si incastra la famosa scena del trailer, col bacio a tre, metafora di tutto ciò che sarà con la ragazza e tra di sé. Entrambi pazzi di lei, alla partita che li vede avversari il giorno successivo si sfidano per averne il numero e uscirci insieme.
Da qui partono relazioni, gelosie, invidie sportive e non, ripicche, scorrettezze di vario genere, scontri fuori e dentro ai campi che durano anni, fino a che Patrick e Art si ritrovano di nuovo, tredici anni dopo, uno di fronte all'altro, in un challengers, un torneo di bassa categoria (così ho capito). Al primo servono i soldi che ricaverebbe dalla vincita, al secondo un'iniezione di fiducia perché, ormai a fine carriera come professionista, ma senza aver vinto l'US Open (non che io sappia cosa sia, più di quanto sapevo cosa fosse il challenger). Anche in questo caso, non è solo una partita di tennis.
Ho trovato la costruzione della trama francamente interessante, col montaggio che salta dal presente a flashback situati in anni diversi, aggiungendo sempre un pezzettino di storia, svelandoci i retroscena un po' alla volta.
L'altro aspetto che ho trovato riuscito sono i personaggi, molto ben definiti e sfaccettati, anche loro da scoprire strato per strato (la similitudine rimanda alla cipolla di Shrek), via via che il triangolo ci viene rivelato da tutte le angolazioni. Tashi, dopo l'infortunio che le ha distrutto la carriera, diviene allenatrice e continua a vivere di tennis; è una macchina, che vede solo l'obbiettivo davanti a sé, a costo di passare su qualunque cosa. Ma è completamente senza sentimenti fino in fondo? Sicuramente è il suo personaggio la vera protagonista, il perno su cui ruota il triangolo, ma anche il film stesso.
Patrick è scanzonato, pieno di risorse, sembra il più sincero fra gli elementi della triade, anche se, caro Guadagnino, quindici scene in meno in cui far fare a O'Connor il suo adorabile mezzo sorriso, secondo me si potevano girare. Art, anche lui apparentemente un robot sul campo di tennis, è il personaggio più difficile da inquadrare (almeno per me) e che forse subisce maggiormente il passaggio dalla fine dell'adolescenza all'età adulta: lo spettatore resta indeciso se sia mai stato manipolatore o se, invece, sia sempre stato fragile.
Finiti gli aspetti del film che ho trovato positivi, oltre al glamour di abiti e acconciature, principalmente di Zendaya, resta da spiegare perché non mi sia piaciuto.
La prima cosa che ho da osservare è che usare un lunghissimo rallenty per lo spostamento dei personaggi che escono dallo spogliatoio o che si allontanano dopo una discussione non lo trovo per niente sensato. Su cosa dovremmo soffermare l'attenzione? Sulle graziose movenze degli abiti di Tashi? In nessuno dei due casi che ho in mente mi serve per sottolineare delle emozioni o qualsiasi altra cosa e, dunque, è superfluo esercizio di stile (naturalmente, per me).
In generale, poi, le scene sono inutilmente lente nelle partite di tennis, che, per me, risultano la parte peggiore del film. Potrei essere di parte, perché non mi piace il tennis, ma in Una famiglia vincente (per fare un altro esempio) gli scontri mi erano sembrati emozionanti. Il tennis a rallentatore, invece, mi è parsa proprio una pessima idea, così come inquadrare per interi minuti gli spettatori che muovono la testa a destra e sinistra nel seguire il match: carino e coreografico, la prima volta che lo fai, nella partita ambientata nel "presente", ma quando scene intere sono dedicate a Art e Patrick che guardano Tashi, mentre questa è inquadrata unicamente in modo frontale mentre tira avanti a sé la racchetta, la cosa si fa pesantuccia. Meglio il cambio di piani sui protagonisti, che arrivano a essere quasi primissimi, alla Sergio Leone. Di buono, in effetti, c'è stato il gran numero di angolazioni da cui si poteva vedere il gioco nelle partite.
Ma gli incontri non sono la sola cosa noiosa: altre scene sono così tanto prolisse, come quella della festa in cui i nostri eroi si incontrano. In generale ho avvertito una certa claustrofobia da "quand'è che posso fuggire da questa sala" durante la visione. Il film, di due ore e undici (quindi, già parecchio per un film del genere, ossia, di fatto, su una love story) non dico che poteva durare un'ora in meno (dentro di me lo penso), ma almeno 40 minuti sicuramente.
In conclusione,
Cosa mi è piaciuto: trama, personaggi, recitazione, montaggio
Cosa non mi è piaciuto: regia, noioso per la gran parte, lunghissimo
Giudizio: ⭐⭐
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