No, non è un bel film.
E non è per le scene crude, è proprio un film inutile.
Facciamo un passo indietro e alcune premesse prima di parlare di questo film, tratto dal libro Fino all'osso di Camille DeAngelis, presentato in anteprima alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia.
Non ho ancora visto Chiamami col tuo nome (né altri di Luca Guadagnino) e, dopo questa visione, non sono sicura che lo farò. Ho sentito pareri contrastanti in merito, che vanno da "è noioso e lentissimo" a "è bellissimo e immersivo". E avevo sentito pareri contrastanti anche su questo nuovo film tra i conoscenti che lo avevano visto al cinema (mia sorella mi ha così abbandonata a vederlo da sola) e le recensioni che, probabilmente per la prima volta in vita mia, avevo cercato febbrilmente prima di andare a vederlo, spinta dalla necessità di appurare il livello di crudezza. Livello che non ho appurato, scoprendo invece che qualcuno considera spoiler anche ammettere che il film parla di cannibali. Non è spoiler, è la trama: è stato annunciato con chiarezza quando è stato presentato. Ne avevo sentito parlare su Sky prima ancora di vedere il trailer, a inizio settembre. Il genere con cui è classificato è quello dell'horror (e vietato ai minori di 14 anni -pure troppo poco, i ragazzi di oggi non hanno necessità di ulteriori livelli di violenza, che ormai sono "normalizzati"-), ma questo non è per niente un horror (o forse lo è in un paio di scene che non sono quelle del "pasto").
Gli unici generi cinematografici che non guardo (salvo sporadiche e motivate eccezioni) sono l'horror e i film comici. Per il resto sono onnivora. Non è un gioco di parole (anche se sono onnivora anche in campo alimentare), io guardo di tutto al cinema, senza focalizzarmi troppo su genere ed etichetta. Ma non sono un'esperta, sono una fruitrice: per me il cinema è intrattenimento, spettacolo, magia e lo giudico soprattutto con la pancia, con la prima impressione. Per me contano soprattutto l'aspetto visivo (spettacolarità inclusa) e, più di ogni altra cosa, la sceneggiatura. Adoro follemente i film di Hitchcock, adoro i dialoghi di quei film e il fatto che riuscisse a ottenere un capolavoro anche restando nella stessa stanza per tutta la messinscena, come a teatro, facendo reggere il film interamente alla sceneggiatura. Anche i suoi erano film autoriali e si distaccavano dal cinema classico, con le sue regole precise. Ma pure lui riteneva che i film dovessero avere durate contenute (amo la sua battuta "La durata di un film dovrebbe essere direttamente commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana") e che dovessero intrattenere lo spettatore. Il suo linguaggio cinematografico era sintetico: con una sola scena era in grado di riassumerti una premessa, di calarti nel contesto e, in generale, ogni scena era funzionale all'economia del film. Per me questo è il massimo che il cinema può dare. E infatti non mi piacciono quasi mai i film d'autore (a meno di non poter considerare tale anche Parasite).
E stavo pensando proprio a questo mentre ieri sera vedevo i primi fotogrammi del film, prima che si entrasse nel vivo della vicenda. Stavo calcolando il tempo sprecato in scene non utili e non funzionali e, soprattutto, non belle.
Nei primi cinque minuti, la protagonista, Maren, è invitata per un pigiama party da un'amica, poi esce da scuola e trova ad aspettarla il padre, che le fa fare una prova di guida. Fin qui tutto bene: due scene per dirti che la ragazza è già maggiorenne, vive sola col padre e non ha nessun amico, tranne questa ragazza. Poi l'auto parte e li vediamo parcheggiare, scendere, prendere le buste della spesa ed entrare in casa (questo è stato l'esatto momento in cui ho pensato che Hitch avrebbe saltato tutta la parte sul vialetto di casa, risparmiando quasi un minuto, ma in realtà chissà come l'avrebbe girata lui questa parte...) e tutta una serie di lenti rituali (mangiare, lavarsi i denti, aspettare che il padre si addormenti per uscire di nascosto) che annoiano, che potevano essere riassunti molto più velocemente e che non hanno alcuna grazia estetica, quindi, in soldoni, sono scene ingiustificate. Il fatto che mi fossi distratta a pensare che c'era un intero minuto di troppo la dice lunga sul coinvolgimento generato dalla lentezza con cui scorrono le immagini.
Al pigiama party, dopo anni in cui non era mai capitato nulla, succede il primo incidente del film, di cui ho visto sprazzi sufficienti a ottenere due effetti: il primo è stato decidere all'istante che quella era la prima e ultima scena splatter che avrei visto del film (sì, le scene ancora più realiste non le ho viste e non posso giudicarle e mi sta bene così, anzi mi rammarico profondamente di aver visto anche solo la prima); il secondo è che, per addormentarmi, ho avuto bisogno del conforto generato da unicorni e arcobaleni (no, in realtà di Carlo Lucarelli che racconta il caso Marilyn Monroe e del primo capitolo di Harry Potter e la pietra filosofale letto da Giorgio Scaramuzzino, ma ognuno ha la propria comfort zone).
Sulla trama, ma il film in realtà non ha una vera trama -è più una serie di cose che succedono in successione-, l'effetto è di far partire la vicenda: da quel momento Maren sarà sola e vagherà alla ricerca delle sue origini o di sé stessa, incontrando -curiosamente- una serie di compagni cannibali.
"Curiosamente" significa che per me questo è un buco di trama o comunque una forzatura: il film lo giustifica col fatto che questi cannibali pare si riconoscano fra di sé, fiutandosi, ma questo non toglie che Meren scende dall'autobus e si trova un cannibale davanti, entra in un supermercato e c'è un cannibale (e così via). Il ritmo è discontinuo e a un certo momento il tempo si dilata come in un finale, ma non è la vera conclusione -che sarebbe stata pure carina se così fosse stato-. No, il film cambia ritmo e si svolge l'ultimo atto (che avrei preferito non vedere perché per me è ridicolo).
L'amica che ne aveva parlato male a mia sorella l'ha considerato una metafora di una vita da tossicodipendente e ci sta. Potrebbe esserlo su qualsiasi compulsione in effetti, dall'alcolismo al gioco d'azzardo, e su come queste dipendenze possono distruggere vite e famiglie. Il film dichiara che per questi cannibali si tratta proprio di una compulsione, un'irrefrenabile necessità di mangiare carne umana, non alla Hannibal Lecter, col Chianti e le fave, ma più alla DiCaprio in Revenant quando si mangia il fegato di bisonte. Io però non l'ho vista questa metafora e per me è stato solo cercare di rappresentare al cinema un viaggio per gli Stati Uniti con parti splatter, inutili, fini a sé stesse, che non c'entrano nulla con la storia in sé, che presa da sola, sarebbe soprattutto un racconto di formazione di questa ragazza sullo sfondo di sconfinati paesaggi americani. Ma l'abbagliarci con il cannibalismo fa un po' perdere il focus, rende il film confuso, né percorso di crescita, né horror, né on the road movie (quest'ultimo forse era l'ambizione di Guadagnino, ma ha trovato la sceneggiatura già scritta e si è inserito a progetto avviato). La fotografia non è abbastanza bella (non è come ne Il potere del cane) per un film in cui i paesaggi sono centrali. Non può contare sul lato visivo, perché rappresenta un mondo di emarginati, soli, poveri, miserabili. E ho già parlato male di regia e trama.
Diciamo qualcosa di carino: ha una buona colonna sonora e un ottimo cast. Mark Rylance è meraviglioso, ma ho trovato molto bravo anche Michael Stuhlbarg e i due protagonisti. Trovo Mark Rylance uno dei migliori interpreti di questi anni: mi folgorò ne Il ponte delle spie, quando decisi dopo cinque minuti dall'inizio del film che quell'uomo doveva vincere l'Oscar, cosa che ha fatto per l'appunto, ma queste mie epifanie estemporanee sono di solito immotivate, come quando dissi la stessa cosa di Daniel Bruhl e del film dopo aver visto Rush.
E qui giungiamo al motivo per cui, a dispetto del fatto che sospettassi non fosse un film per le mie corde e non avessi voglia di andare a vederlo, alla fine ci sono andata: la mia compulsione. Tutti gli anni, da otto-nove anni a questa parte, faccio i salti mortali per vedere tutti i film nominati ai premi Oscar, prima della Notte degli Oscar. Ci sono state molte annate in cui ne ho potuti vedere pochi, a causa del lavoro, ma nel 2014 e quest'anno ero andata molto vicina a vedere tutte le candidature delle categorie principali. Così, fiutando che potessero esserci delle buone interpretazioni e conscia che a casa sul divano (santa sanctorum del relax e delle emozioni positive) mai avrei visto una tale pesantezza, ho cercato di avvantaggiarmi, traendone un insegnamento: se l'istinto ti dice di stare a casa, stai a casa.
Cosa mi è piaciuto: Mark Rylance, Michael Stuhlbarg, Timothée Chalamet, Taylor Russell, il cast in generale
Cosa non mi è piaciuto: regia, sceneggiatura, fotografia, scene splatter (ah, no, non le ho viste, ma non sono comunque funzionali alla narrazione)
Giudizio: ⭐ Film inutile e brutto
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