martedì 28 ottobre 2025

Un thriller psicologico alla Guadagnino: After the hunt

 Il terzo film che vedo di Luca Guadagnino è After the hunt, film di Amazon presentato fuori concorso alla mostra del cinema di Venezia.

Le precedenti esperienze che ho avuto col regista palermitano sono state infelici: di Bones and All e Challengers ho parlato in separata sede e non capisco perché abbia dato una terza chance a questo autore, ma ho fatto bene.

La locandina del film annuncia già una caratteristica che mi è piaciuta molto: la frammentarietà dei punti di vista. La complessità di una vicenda o di un'esistenza sta nel fatto che si compone di tante piccole facce, articolate, stratificate, molto spesso nascoste e su questo si sviluppa la narrazione di questo film.

All'apparenza c'è un fatto molto preciso: il professor Hank Gibson (Andrew Garfield in un ruolo molto diverso dai suoi soliti - piuttosto intenso, anche se non mi ha del tutto convinta) "oltrepassa il limite" con una delle studentesse di Yale (Ayo Edebiri), la ricca Maggie Price, che lo racconta alla professoressa con cui ha la tesi. E questo basterebbe per farci chiedere: chi mente dei due se una dice che l'ha fatto e l'altro nega recisamente? Ma c'è molto più di questo. La protagonista del film, infatti, non è la studentessa e non è il professore, ma una magnetica (e - vogliamo dirlo? - bellissima a 58 anni) Julia Roberts, ma quello che (forse) è accaduto - e, tranquilli, del tutto non lo sapremo mai nemmeno alla fine del film, anche se degli indizi ci sono - non è una vicenda collaterale, ma totalmente centrale e inglobante il suo personaggio.

La professoressa Alma Imhoff sta rivaleggiando proprio col collega e amico intimo Hank per la cattedra di filosofia e, come le spiega il marito Frederik (Michael Stuhlbarg che in Bones and all mi era piaciuto così tanto e che è favoloso anche in questa pellicola), psicanalista, sia Hank, sia la (apparentemente) brillante Maggie sono ammaliati (e forse di più) da Alma, ecco perché lei permette loro di avvicinarsi alla sua figura altrimenti algida e inarrivabile. 

"Tu tendi a scegliere le persone perché ti adorano, non perché abbiano reali meriti di qualche tipo."

Julia Roberts gestisce un personaggio sofferente (fisicamente, per dei dolori addominali che la perseguitano, e psicologicamente, tormentata dal suo passato, sotto stress e guidata solo dal desiderio e dall'ambizione). Solo? No, non solo.

Piano piano, perché Guadagnino non è cambiato, è lentissimo (sempre al limite dell'esasperante o già oltre), come un fiore che si schiude a rivelare, petalo dopo petalo, il suo contenuto, scorgiamo una nuova sfaccettatura del personaggio, un segreto nuovo, un nuovo bisogno, una nuova fragilità, nascosta dalla maschera di perfezione, autocontrollo e mondanità che Alma porta ogni giorno.

Trovo che il personaggio sia scritto benissimo, ma non solo il suo: il marito devoto e perfetto, ma non succube e che conosce sua moglie più di quanto lei creda e l'accetta com'è; il migliore amico, così spavaldo e brillante, ma che sotto sotto nasconde altri lati, intenzioni e desideri, eppure forse si era accorto lui di qualcosa che era sfuggita ad Alma (se poi le era sfuggito davvero); e poi Maggie Price. Un'altra donna scritta molto bene e anche recitata bene: una figura complessa, che mai si capisce quanto reale e quanto finta; quanto viziata figlia di papà e quanto autentica in quello che sente e che crede. Tutto rimane sempre tra apparenza, bugie, segreti ben nascosti e persino rubati e manipolazione, perché una cosa appare in modi diversi a seconda di come la si racconta. E forse stiamo tutti solo recitando una parte. Pirandello docet. Si aggiunge anche una componente di conflitto generazionale con una precisa denuncia della fragilità dei nuovi giovani adulti (di cui tra l'altro si sente parlare sempre più spesso).

"Non mi sento più a mio agio a parlare qui con te."

"Non tutto ha lo scopo di metterti a tuo agio."

Non sentite anche voi nell'aria profumo di candidature a qualche premio? Azzarderei quelle di Julia Robert, Ayo Edebiri e Nora Garrett per la sceneggiatura, ma penso che anche Michael Stuhlbarg ci potrebbe arrivare. 

E non sono da meno le scenografie (la casa di Alma e Frederick è un gioiello) e i costumi, mentre una delle cose che mi è risultata più fastidiosa, soprattutto a inizio film è un sonoro invasivo, che scava e contribuisce (sapientemente, è vero) ad accrescere la tensione, quel ticchettio terribile che dura per tutta la prima parte del film (che mostra la quotidianità della vita di Alma) fino al titolo.

Ma veniamo a quello che non mi è piaciuto, invece: Guadagnino. Tornano i primissimi piani nei momenti di intensità emotiva e alcune riprese molto "ondeggianti" che assecondano la confusione del personaggio che la sta vivendo. La macchina da presa "segue da vicino" i sentimenti dei personaggi e aiuta a narrarli. La conduzione è lenta e ripetitiva, anche inutilmente, poiché alcune dinamiche ripetute contribuivano tra poco e niente al racconto e questo, almeno per me, è un peccato capitale. Non c'è ragione di far durare un film un'ora e venti minuti, specialmente con un ritmo così lento e alcuni momenti che sono sfruttati sì per sottolineare un certo aspetto, un certo significato (ma forse ci arrivavamo lo stesso).

Cosa mi è piaciuto: sceneggiatura, cast, scenografie, costumi

Cosa non mi è piaciuto: regia, ritmo, durata

Giudizio: molto molto molto interessante e ben recitato, ottima scrittura dei personaggi e del disvelamento, ma lungo e lento ⭐⭐⭐

lunedì 6 ottobre 2025

Andate a vedere La voce di Hind Rajab

 A un anno (e poco più) dall'ultima recensione di questo blog, torno con un film che mi ha chiesto prepotentemente di diffondere il verbo. 

Volevo già tornare, perché mi mancava raccontare, anche, di cinema, dire la mia su quello che guardo, dopo una stagione che ho passato a vedere film, ma tenendomi tutto dentro. Ecco, già mi mancava qualcosa, ma stanotte proprio non ho chiuso occhio dopo aver visto La voce di Hind Rajab di Kawthar ibn Haniyya (già Leone d'argento per la giuria a Venezia e che tra i produttori ha anche Brad Pitt e tra gli esecutivi  Alfonso Cuarón, Joaquin Phoenix e Roney Mara).


Premetto che sapevo perfettamente cosa stavo per andare a vedere (una delle rarissime volte), essendo un fatto di cronaca del gennaio 2024 (non mi preoccuperò di fare spoiler infatti) e sapendo che il film sarebbe stato in arabo per mantenere i file audio originale delle telefonate tra vittime e centro di coordinamento della Mezzaluna Rossa Palestinese.

Sì, lo sapevo che sarebbe stata la voce di quella bambina di cinque anni che chiedeva aiuto mentre le sparavano addosso, nascosta dentro la macchina degli zii e dei cugini con intorno i cadaveri dei sei parenti morti e appena fuori i carri armati israeliani, ma non ero veramente pronta a sentire la voce minuta di una bambina dell'asilo chiedere:

"Vienimi a prendere."

"Ho paura."

"Morirò presto."

"Mi sparano."

"Venitemi a prendere."

"Sono sola."

"Ho paura del buio."

Non è un'attrice, è proprio la voce di Hind e per noi sono solo un'ora e un quarto di audio su 90 minuti totali di pellicola, ma gli operatori del centro di Ramallah della Mezzaluna Rossa (loro sì, interpretati da attori, salvo nei momenti in cui si vedono o si sentono le registrazioni di quella folle giornata del 29 gennaio 2025) passano tre ore al telefono con la bambina, tentando di rassicurarla e nella paradossale situazione di non poter inviare soccorsi perché nelle aree sotto assedio sparano anche sulle ambulanze.

Oltre alla straziante conversazione fra la bambina terrorizzata e gli operatori telefonici, frustrati dall'impotenza, annichiliti da una tragedia più grande di loro e che non sanno come non far trasparire la loro disperazione affinché Hind resti calma, c'è un interessante punto di vista sviscerato in ogni dettaglio dal film, che riesce a scrivere ogni passaggio molto bene, non didascalico, ma chiaro: i soccorsi della Mezzaluna Rossa sono schiacciati dalla burocrazia militare e in grave pericolo.

Gli operatori che tengono impegnata la bambina al telefono implorano, urlano, si arrabbiano, litigano furiosamente e crollano, emotivamente sfiniti, perché i soccorsi non possono partire, altrimenti finirebbero uccisi come altri colleghi prima di loro, se non viene concordato un percorso sicuro e non è ricevuto un via libera (green light). Il percorso sicuro deve essere ottenuto attraverso la mediazione di un intermediario (uno alla volta o Croce Rossa o Ministero della Salute) e poi di un ulteriore intermediario con l'esercito che risponde al secondo intermediario, che risponde al primo, che comunica alla Mezzaluna. Folle? Certo. E se si interrompe per qualche ragione questa catena? Si ricomincia daccapo. E se la bambina non risponde per dieci minuti? Si ferma tutto. E se nel frattempo le strade intorno sono crollate? Va aggiustato l'itinerario chiedendo nuovi consensi. E come si risponde a una madre o a uno zio che urlano al telefono perché ovviamente non capisce per quale motivo non si può inviare un'ambulanza? No, nelle altre zone le mandiamo, ma a Gaza non si può fare, ci sparano addosso.

Non è un segreto come finisce questa storia: ha fatto il giro del mondo, ripresa proprio perché fosse mostrata sui social, così da spingere l'opinione pubblica e ottenere il percorso sicuro per mandare un'ambulanza dalla bambina. 

Il cinema (tunisino, ma in coproduzione con Francia, Regno Unito e USA,) apre la porta al documentario quando nello schermo del telefono che riprende la scena compaiono proprio i personaggi ripresi in quel 29 gennaio al telefono con Hind: le riprese reali si sovrappongono agli attori palestinesi che recitano, con le stesse movenze dei veri Umar, Rana, Mahdi, Nisrin, gli stessi abiti e volti molto somiglianti. Sono bravissimi gli attori e partecipiamo al dolore e alla rabbia dei protagonisti, che non sanno come affrontare né le difficoltà organizzative, né lo stress psicologico proprio e il loro terribile compito di mentire per tre ore a una bambina di cinque anni sul fatto che l'avrebbero portata via da lì molto presto. La regista tunisina (il film è il candidato della Tunisia per il miglior film internazionale agli Oscar del 2026) ha cercato di rimanere esterna e asciutta, affinché protagonisti fossero quei file audio e quella voce.

Vuoi una definizione di bambino? Ecco: è quella creatura che ti chiede mentre le sparano perché non puoi chiedere a tuo marito se ti accompagna a prenderla per portarla via. 

Vuoi una definizione di guerra? Ecco: è quella situazione in cui morirai se vorrai andare a salvare la bambina; è il finale di questo film (te lo spoilero anche se non lo vai a vedere, quindi, ti prego, vai al cinema perché lo dovrebbe vedere tutto il mondo questo film, anche se non sei pronto, come non lo ero io), ovvero dei soldati che hanno visto benissimo agli infrarossi che in quella macchina è rimasto un corpicino vivo, forse hanno pure visto gli appelli social, ma aspettano l'arrivo dei soccorsi, faticosamente inviati richiedendo un percorso sicuro che è stato burocraticamente avvilente da ottenere, per sparare, così se ne possono uccidere altri due, mentre per tre ore hai psicologicamente torturato la bambina di cinque anni che hai comunque deciso di uccidere.

Questo è più spietato e più potente di un Diario di Anna Frank, perché di Anne avevamo solo le parole, ma di Hind abbiamo anche quella vocina spaventata che ho risentito per tutta la notte.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐