mercoledì 29 marzo 2023

Argentina, 1985, il processo ai crimini contro l'umanità della Giunta militare

Nel 1976 un golpe militare pose fine al governo democratico retto da Isabel Martinez, la terza moglie di Perón che gli succedette come Presidentessa della Repubblica alla di lui morte, e instaurò una dittatura militare (ben vista durante la Guerra Fredda dagli USA), nel cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale. La nuova Giunta Militare, col pretesto di sedare una fantomatica guerra civile, si prefissò di reprimere qualunque tentativo sovversivo comunista o peronista: i possibili o presunti dissidenti e tutti coloro, amici o familiari, che potevano avere informazioni su ribelli furono prelevati da militari e fatti sparire, portati in luoghi segreti di detenzione, interrogati, torturati e, spesso, uccisi. Si ipotizza che 30.000 persone siano scomparse (desaparecidos) in questa guerra sporca, un sistematico piano di instaurazione di un regime di terrore. Nel 1983 la sconfitta contro gli inglesi nella guerra per il controllo delle isole Falkland (o Malvinas per gli argentini) e la denuncia contro i crimini commessi contro i civili, che cominciava a farsi sentire anche all'estero, per esempio attraverso le manifestazioni non violente delle Madri di Plaza de Mayo, le madri di desaparecidos che ogni giovedì si riunivano per mezz'ora in cerchio nella piazza con in testa un fazzoletto bianco, indebolirono la dittatura, costringendola a indire elezioni democratiche, che furono vinte da Raúl Alfonsín, che fece iniziare indagini contro i generali della Giunta militare.


Il film Argentina, 1985, scritto e diretto da Santiago Mitre è la storia del processo (civile e non militare) che si tenne ai nove membri che furono a capo della Giunta militare tra il 1976 e il 1983, accusati di crimini di guerra e contro l'umanità. Soprattutto, però, è la storia degli eroi di questo processo, ovvero del pubblico ministero Julio César Strassera (Ricardo Darín, che mi è piaciuto), incaricato di condurre l'accusa durante il processo e dei pochi collaboratori (tutti molto giovani, poiché chi era più esperto o più anziano non voleva correre il rischio o era filomilitare) che furono disposti a far parte della squadra che in quattro mesi dovette mettere su le prove contro la dittatura, ascoltando più di 800 testimoni dei rapimenti e delle torture messe in atto in ogni angolo del paese contro chi era sospettato di essere un eversore o di avere informazioni al riguardo. Il compito di Strassera, di Luis Moreno-Ocampo (Peter Lanzani), collaboratore e vice, e del loro team fu duro non solo per il poco tempo a disposizione, ma soprattutto perché fortemente messi sotto pressione dalle costanti minacce ricevute prima e dopo il processo contro sé stessi o le proprie famiglie. Anche durante il processo furono emessi molti allarmi bomba e alcuni attentati furono compiuti realmente.

Il film, disponibile su Prime Video da ottobre 2022, è stato molto interessante e ha esposto la storia con ordine e chiarezza, cercando di mostrare la storia dell'instaurazione del processo, dei molti risvolti politici e, al contempo, cercando di fornire spaccati di vita privata dei due stoici procuratori che guidavano l'accusa. Le testimonianze sono molto forti, un cazzottone nello stomaco e, in generale, il film non è di lieve digestione, affrontando di petto gli orrori del periodo della Riorganizzazione e le ipocrisie della successiva democrazia.

È un film composto, con un ritmo non lento, ma costante e che si prende il tempo, neanche abominevole, ma comunque importante (2 ore e 20 minuti), per raccontare i fatti.

L'ambientazione è opaca, sembra un film girato negli anni Ottanta, ma ha una fotografia molto curata e pulita. La scrittura è asciutta e priva di populismo o di idolatria verso i protagonisti, anche se la loro compostezza non basta a farceli apparire modesti funzionari pubblici nell'esercizio dei loro doveri, come ripete Strassera nel film. Proviamo simpatia per i modi e i valori di Strassera, apprensione per i suoi familiari, compatiamo la situazione familiare di Moreno-Ocampo e troviamo brillanti e scanzonati i giovani membri della squadra di accusa e il personaggio di Carlos Somigliana.

Il film è stato candidato come miglior film straniero a tutti i principali concorsi di quest'anno, Venezia, Golden Globes, BAFTA, Critics' Choice Awards e Oscar, vincendo il Golden Globe e il premio FIPRESCI alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.

Giudizio: Per me non ha guizzi particolari, ma è ben fatto e molto interessante. ⭐⭐⭐ 1/2

Il ritorno di Brendan Fraser: the Whale

 L'ovazione di Venezia ha accolto un commosso Brandan Fraser al termine della proiezione di The whale, il nuovo film di Darren Aronofsky, adattamento di Samuel Hunter di una sua stessa opera teatrale. Dopodiché l'attore è stato candidato per la sua performance a Golden Globes, BAFTA, SAGA, Critic's Choice, Satellite Awards e Oscar.


Ha un taglio teatrale, in effetti, questo film: tutto ambientato nella casa -nel salotto- di un uomo obeso, Charlie (Brendan Fraser), istruttore universitario di corsi online sulla scrittura. In particolare nel corso del film sarà ossessionato dalla rilettura di una testina su Moby Dick (dai contenuti discutibili, ma sono americani e non se ne sono accorti, mentre mia sorella è stata male per tutta la visione, finché gli errori non sono stati in un certo senso giustificati). È un uomo solo e malato: ha divorziato dalla moglie anni prima per mettersi con l'amore della sua vita, Alan, che poi è morto; da allora non vede più la figlia Ellie (Sedie Sink, star di Stranger Things), con cui cercherà di ricucire i rapporti negli ultimi giorni della sua vita. Si occupa di lui l'amica e infermiera Liz (Hong Chau, candidata come miglior interprete non protagonista ai SAGA, ai BAFTA e agli Oscar), ma in quell'ultima settimana anche un altra persona cerca di salvare di Charlie, il missionario Thomas (Ty Simpkins).

Si tratta di un film tristissimo, che affronta marginalmente anche il binge eating, ma si concentra soprattutto sulla solitudine del personaggio, che si è lasciato andare dopo la morte del compagno. È un film sugli errori, sui rimpianti e anche sul non poter tornare indietro, molto severo, con una visione americana che non perdona i peccati e non concede salvezza, anche se uno sweet ending, perché happy decisamente non è, ce lo lascia come spiraglio in un'angoscia altrimenti imperante per due ore tonde. 

Una tristezza tendente al deprimente e una scrittura pietista, un ritmo molto lento, fino alla noia: non mi è piaciuto. Potrei anche essere satura di film ad alto tasso di depressione quest'anno e via via riesco ad accettarne sempre meno nel mio cuore. Questo non ci è rientrato.

La miglior cosa del film sono le interpretazioni, anche se, per essere onesta, ne ho preferite altre quest'anno, soprattutto nella categoria Miglior attrice non protagonista. Brendan Fraser non l'ho trovato superiore a Austin Butler o Colin Farrell, ma alla pari con questi.

Giudizio: ⭐

sabato 25 marzo 2023

L'ultimo capitolo della saga di Rocky (senza Rocky)

 Il terzo film della saga di Creed, spin off e sequel di quella di Rocky Balboa, non ha nel cast, dopo ben otto pellicole, Sylvester Stallone, che però è tra i produttori.


Il protagonista è Adonis Creed, figlio di Apollo, a cui Rocky fa da allenatore nei primi due film, entrambi molto piacevoli, soprattutto il primo, che nel 2015 mi aveva molto convinta, pur non essendo una fan della saga. Perché Stallone non è della partita nel terzo capitolo? L'attore ha dichiarato che la piega che stava prendendo la storia, nella scrittura di Keenan Coogler e Zach Baylin e sotto la direzione dell'interprete di Adonis, Michael B. Jordan, non incontrava il suo favore. 

I like my heroes getting beat up, but I just don’t want them going into that dark space. I just feel people have enough darkness.

Mi piace che i miei eroi si facciano picchiare, ma non voglio che vadano in quello spazio scuro. Sento solo che le persone hanno abbastanza oscurità.

Con queste parole, rilasciate in un'intervista a The Hollywood reporter, Stallone si sarebbe dissociato dal lavoro creativo svolto per Creed III.

In effetti i tre capitoli sono abbastanza duri col protagonista, ma questo ultimo è davvero più oscuro e più crudo, tornando a perseguitare Adonis un fantasma del suo passato. Jonathan Majors porta sullo schermo un uomo che cova in sé rancore e voglia di riscatto. Damian Anderson e Adonis Creed erano amici da ragazzi, quando Dame sembrava essere destinato a diventare un grande pugile. Ma Damien finisce in prigione per vent'anni e quando esce cerca l'amico di un tempo, che decide di aiutarlo nel suo sogno di riprendere la boxe facendolo allenare nella sua palestra, che gestisce con l'allenatore Duke, dopo essersi ritirato dal ring da campione in carica. Adonis sottovaluta però l'ambizione cieca di Dame e anche i sentimenti che cova nei suoi confronti. Tocca tornare a combattere.

La storia ci mostra una situazione iniziale idilliaca: Adonis con la sua ridente famigliola (al limite della leziosità), nonostante le difficoltà della figlia sordo muta. Poi, con l'ingresso in scena di Damien, una serie di cambiamenti (la salute della madre, i rapporti con Duke e Dame, la propria incapacità di aprirsi con la moglie ed esprimere i sentimenti) precipitano il protagonista in un vortice da cui fatica a uscire.

Il film è scorso abbastanza bene, con un ritmo discreto, ma che lascia poco spazio ai combattimenti sul ring. Il secondo tempo, in questo senso, è decisamente migliore.

L'esordio alla regia di Jordan è convincente. Fa uso anche del rallenty e di molti primi e primissimi piani. Nello scontro finale, per sottolineare l'intimità degli avversari, Adonis e Dame sono rappresentati isolati dallo stadio che li ospita. Il film, che è stato girato con la tecnologia IMAX, ha una bella fotografia e ne approfitta per esaltare i primi piani degli attori.

Il cast è bravo, in particolare mi è piaciuto tantissimo Jonathan Majors, credibile in tutte le sfaccettature che ci mostra il suo personaggio.

La musica, che ha caratterizzato così tanto tutti i capitoli di questa saga sequel, legandosi alla storia di Bianca (Tessa Thompson), moglie di Adonis, anche in questo caso è incisiva nei momenti clou del film.

Cosa mi è piaciuto: regia, Jonathan Majors

Cosa non mi è piaciuto: ritmo non sempre trascinante, poche scene ambientate sul ring, molte di più incentrate sul vortice nero in cui scivola il protagonista

Giudizio: film d'intrattenimento mediocre, inferiore ai primi due episodi ⭐⭐⭐

domenica 5 marzo 2023

Everything Everywhere All at Once è perfetto

 Il film con più nomination agli Oscar, ben undici (film, regia, sceneggiatura originale, montaggio, costumi, colonna sonora, canzone, Michelle Yeoh, Ke Huy Quan, Stephanie Hsu, Jamie Lee Curtis), quest'anno è Everything Everywhere All at Once dei due registi e sceneggiatori Daniel Kwan e Daniel Scheinert, detti anche Daniels per la condivisione del primo nome. 


In generale questo film sta macinando candidature (sei ai Golden Globes, dieci ai BAFTA, quattro ai SAGA, e altre ancore ad altri premi che non seguo abitualmente) e vittorie (le performance di Michelle Yeoh e Jonathan Ke Quan stanno convincendo ovunque e hanno già vinto i Golden Globes e rispettivamente la nomina di migliore attrice per il National Board of Review e migliore attore non protagonista ai Chicago Film Critics Association).

La storia è molto articolata e sceneggiatura e regia non danno un attimo di respiro allo spettatore, catapultato da una situazione a un'altra e anche da un universo all'altro. La storia è infatti quella di una famiglia cinese che abita negli Stati Uniti: la madre Evelyn (Michelle Yeoh) e il padre Waymond (Ke Huy Quan) mandano avanti una lavanderia e si stanno preparando a una giornata impegnativa. Sono in attesa della visita del padre (James Hong) di Evelyn, sempre molto critico nei confronti della figlia, che ha paura della sua reazione se gli presenterà la fidanzata della figlia (Stephanie Hsu), e devono recarsi a una revisione dei conti dalla severa signora Deirdre (Jamie Lee Curtis). In quella giornata, però, Evelyn riceverà la rivelazione che un pericolo incombe su tutti gli universi, nei quali una forma alternativa dei suoi cari ha una storia e un carattere diversi. Dovrà imparare in tutta fretta (e con lei lo spettatore) a districarsi in questo multiverso, se vorrà salvare la sua famiglia.

Per me questo film è stato una bomba: regia e montaggio sono sempre ben calibrati, alternando le parti di dialogo e di azione senza mai rallentare troppo il rimo e senza mai annoiare. Mi ero già innamorata della regia nella primissima scena in cui le immagini riflesse in un piccolo specchio rotondo danno il via alla narrazione. Le sequenze action sono pura goduria: sono coreografie chiare, dinamiche, ben comprensibili, ben illuminate e molto originali e divertenti. La scrittura è fresca e originale, ha delle trovate veramente geniali, ma tocca anche la corda dell'emozione nell'intrecciare i legami dei personaggi nei vari universi e dando una conclusione meravigliosa alla(e) storia(e). Le storie sono ricche e si susseguono rapidamente: allo spettatore è richiesta una certa velocità nel comprendere i meccanismi di funzionamento del multiverso e i suoi passaggi, ma in poche sequenze diventano chiari. Manca il tempo di rilassarsi, le emozioni si rincorrono e riempiono il tempo del film: due ore e dieci passano senza accorgersene, è un tempo giusto.

Le quattro interpretazioni candidate, ma si potrebbe mettere anche quella di James Hong, sono state incredibili: l'asticella era alzata dal dover cambiare personaggio al cambiare multiverso e restano tutti molto credibili. Ke Huy Quan compie delle trasformazioni incredibili: da marito pesticciato e timido a uomo realizzato e sicuro di sé, a combattente di una sorta di resistenza dell'Universo Alfa. Ha colto il punto Jamie Lee Curtis che ha ironizzato sul fatto che non molti attori forse avrebbero recitato come lui dopo 30 anni di stop: l'attore era infatti stato un divo bambino al tempo de I Goonies e di Indiana Jones e il tempio maledetto, ma poi non aveva più trovato mercato nel cinema ed è stato commovente il suo discorso al momento del ritiro del Golden Globe. Stephanie Hsu è al momento la mia preferita tra le Attrici non protagoniste, per me è stata stupenda. Michelle Yeoh è stata altrettanto brava, altrettanto brillante, altrettanto disinvolta e versatile e sono combattuta se preferisco la sua performance o quella di Ana de Armas, come lo sono per le interpreazioni di Ke Huy Quan e Barry Keogan.

Non ho altro da dire su questo film, che ho trovato grandioso, fresco, divertente, emozionante. Mi sono piaciuti l'intreccio, i colpi di scena, i personaggi in tutte le loro versioni, i guizzi geniali della sceneggiatura, il ritmo e la dinamicità della messa in scena, la regia: non riesco a trovargli un difetto. Tiferò questo film in molte categorie per cui è nominato, lo so già anche se mi mancano ancora diversi film da vedere.

Giudizio: 🥯🥯🥯🥯 1/2

Il realismo (non) violento di Niente di nuovo sul Fronte Occidentale

L'adattamento, scritto e diretto da Edward Berger, di Im Westen nichts Neues di Erich Maria Remarque è stato presentato al Toronto International Film Festival e non è stato solo candidato come miglior film straniero a Golden Globes, BAFTA e Oscar, ma per questi ultimi ha collezionato nove nomination totali (film, sceneggiatura non originale, fotografia, scenografia, trucco-acconciatura, effetti speciali, sonoro e colonna sonora, oltre a quella già citata). Il film si può trovare sulla piattaforma Netflix dallo scorso anno.


La storia è quella di alcuni giovani tedeschi, Paul e i suoi amici, che si arruolano nella Grande Guerra, convinti che avrebbero vissuto un'avventura da eroi e che, anche grazie a loro, la Germania avrebbe conseguito una vittoria schiacciante in breve tempo. Ma oltre a non essere di rapida risoluzione, il conflitto si rivelerà lontanissimo dalla gloriosa avventura che si attendevano. Mentre gli viene consegnata la divisa i ragazzi fremono d'impazienza, ignari che quelle casacche hanno vestito altri soldati che hanno conosciuto una triste fine. E poi il fango, la trincea, il terrore, il freddo, il lutto, la nostalgia di casa, dei genitori, delle fidanzate, la durissima vita di stenti. La guerra, senza poesia né retorica e senza nemmeno insistere sulla spettacolarità delle uccisioni, senza alcun intento splatter, ma senza negare la crudezza atroce delle trincee e delle battaglie, contrapposte alle scenografie scintillanti dei palazzi e dei treni in cui si decidono le sorti del conflitto. La storia principale si alterna, infatti, con le trattative della delegazione tedesca, tra cui figura Matthias Erzberger (Daniel Brühl) con quella francese, che, come sappiamo, imporrà a Compiègne le condizioni che porteranno alla pace infame, che tanta parte avrà nel destino degli anni a venire.

Ogni avanzamento di un esercito o di un altro è futile e quasi ridicolo. L'intento del film è mostrare con schiettezza la quotidianità dell'attesa, delle privazioni, della paura, la brutalità degli scontri, l'agonia dei feriti, l'ammasso di corpi maciullati con un livello di spietatezza e al contempo di oggettività estremo. I piccoli dettagli, le uniformi, le medagliette, i pasti sottolineano le miserie e i fugaci destini dei soldati. L'angoscia è scandita da una colonna sonora il cui tema principale è già iconico: tre note che ci trasmettono paura.

La scena dei carri armati ha una potenza visiva ed emotiva da pelle d'oca: è semplicemente agghiacciante. Regge meno il confronto con il libro la sequenza "Camerade", che è una delle ragioni principali della fama del romanzo, col brano riportato su ogni antologia didattica.

È certamente molto dura affrontare la visione di questo film (e ho temuto moltissimo due ore e mezza di un film di guerra, che come genere non è certo dei più divertenti), ma è un'esperienza emozionante e visivamente grandiosa: ha una fotografia straordinaria, precisa e limpida anche nei momenti più oscuri (al momento mi sbilancio a tifare per questo film in questa categoria). Gli armamenti e gli scontri sono bene evidenziati dagli effetti speciali e dal sonoro. Ho apprezzato anche alcune interpretazioni, prima tra tutte quella di Albrecht Schuch (Kat). Ma soprattutto ho adorato questa dissacrazione di ogni velleità romantica della guerra: non c'è eroismo, solo "squallore disgraziato" (si riconosce la citazione?) e grette miserie quotidiane. Il tutto esaltato da un comparto visivo e sonoro di alto livello.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ Un film spietato, molto difficile da vedere per la durezza e il realismo con cui è rappresentata la guerra, ma, anche per questo, bellissimo