Ieri sera sono stata al cinema d'essai del mio territorio (il cinema Garibaldi di Scarperia) a vedere il nuovo film del regista iraniano Jafar Panahi, attualmente incarcerato in Iran, di cui avevo sentito parlare, ma del quale (ammetto le mie lacune) non conoscevo la filmografia.
Dopo questa serata penso però di andarmi a recuperare altre sue opere, perché è davvero un maestro, come lo chiamano nel film.
Il film era stato insignito del premio speciale della giuria a Venezia circa un mese fa e c'era chi si era lamentato che non avesse ottenuto di più.
Cosa ne penso io, che non sono un critico ed esprimo pareri più di pancia che di sostanza?
Premettendo che non è il genere che preferisco (amo più il film d'intrattenimento che il film di riflessione), l'ho trovato molto interessante e pure geniale in molti modi. Sì, è un pochino lento, ma lento nel raccontare più che nel ritmo (che in realtà è abbastanza coinvolgente): ci sono scene molto lunghe e statiche, movimenti di macchina al minimo, qualche campo lungo, più di un piano sequenza, poco montaggio, un po' di più verso la fine quando si intensificano un po' gli eventi. Questo per valorizzare i dialoghi, che sono la narrazione stessa. I movimenti della camera coincidono col cambio di scena quasi come una struttura teatrale. Ogni scena ha senso nell'economia della storia e questo lo apprezzo tantissimo.
Anche da profana riconosco la mano autoriale di un regista di grande esperienza, che vuole raccontare a parole sue (col cinema suo) la sua storia che si intreccia ad altre storie di un paese così lontano dal nostro e costretto, come sappiamo, in un regime cieco, tirannico e molto anacronistico, di cui peraltro si parla molto in queste settimane.
Il film si apre con un piano sequenza, che dopo pochi minuti si rivela essere un film nel film.
Panahi, nei panni di sé stesso, sta infatti dirigendo un film, quello della scena che ci viene mostrata, ma a distanza. Lui si trova infatti in un villaggio al confine turco, dove ha preso in affitto un alloggio. Ed è in questo villaggio che il suo aver (o forse non aver) scattato una fotografia a una coppia di giovani sarà pietra di uno scandalo sentimentale, che metterà a soqquadro la calma superficiale di questo luogo sperduto in cui tradizioni antiche, miopi e, ammettiamolo, misogine (come il regime del paese natio di Panahi) si ripetono immutate negli anni.
C'è un incastro complesso e ingegnosamente architettato di storie di ambiguità, che vertono sulla foto (Panahi l'ha scattata o no quella fotografia?), sul confine (vuole o non vuole varcare il confine e fuggire infrangendo il divieto di lasciare l'Iran?) e sul film stesso, che è sì film nel film, ma in realtà in un articolata giostra di scambi è invece realtà nel film - che è dentro il film- (e questo è puro genio secondo me).
I personaggi sono molto credibili, tramite loro c'è una descrizione di un mondo intero (la facciata di tradizione e gentilezza che nascondono il vero animo che c'è sotto), e c'è questo mescolarsi straordinario di personaggi reali e di fiction che in realtà sono reali che io ho adorato.
Cosa mi è piaciuto: il film dentro il film che in realtà non è film, la regia
Cosa non mi è piaciuto: è un genere fuori dalla mia confort zone, ma ne sono uscita volentieri e ne è valsa la pena; ma gli orsi chi sono?
Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

Nessun commento:
Posta un commento