venerdì 22 settembre 2023

Assassinio a Venezia: ma quanto ha fatto parlare di sé questo film di Kenneth Branagh!

 Se vi dicessi che questo film c'entra poco col libro da cui dichiara di essere stato tratto, mi credereste?

Penso di sì, perché sono mesi che non si sente parlare d'altro e partivo con tutti i pregiudizi possibili prima della visione: la storia originale non era ambientata a Venezia, ma in un delizioso paesino inglese; la Christie non lo aveva connotato come un libro sui fantasmi; perché mai hanno ri-edito la storia con il titolo del film, creando un sacco di confusione ai lettori, etc, etc.

Non pensavo dunque di potermi ricredere così tanto quando ho visto il film.


Facciamo un passo indietro e torniamo al 2017, all'anno di uscita del primo adattamento di Kenneth Branagh (come regista e protagonista) di uno dei più famosi gialli della regina Agatha Christie, Assassinio sull'Orient Express. Fu un adattamento carino e niente di più: non stravolse la trama originaria e rimase abbastanza vicino agli altri due adattamenti che conosco dell'opera, ovvero quello della serie televisiva inglese con l'interprete che ormai è il vero Poirot per tutti gli amanti del detective belga, David Sushet, e quello di Sidney Lumet del 1974. Quest'ultimo, come quello di Branagh, ha dalla sua un cast formidabile di celebrità del periodo, e per me rimane l'adattamento più riuscito dei tre. Diciamo che il primo film giocò sul sicuro e rimase un "nulla di che", abbastanza trascurabile.

La seconda pellicola, progettata per uscire a soli due anni di distanza dalla prima, uscì invece nel febbraio 2022 a causa della pandemia da COVID-19 e porta al cinema, di nuovo, Assassinio sul Nilo, altro celebre romanzo della nostra. In questo caso non mi soffermerò a dire che preferivo la versione di John Guillermin con Peter Ustinov del 1978, perché sarebbe ridicolo. Branagh ripropone l'operazione "copiatura del capolavoro degli anni Settanta con un cast stellare", ma toppa alla grande stavolta. Si vuole distaccare, ma non lo fa del tutto: la storia rimane a grandi linee quella originale, ma viene infarcita di altre cose inutili e che non aggiungono alcunché alla trama, appesantendola e distogliendo dall'indagine. Poirot in questo film fa cose, un sacco di cose, ma non interroga i sospettati. Senza del tutto tralasciare il fatto che Bouc è stato estrapolato dall'altro film per essere stravolto a caso in un'opera a cui non apparteneva e che sicuramente Simon e Luoise negli anni Trenta non potessero stropicciarsi in una sala pubblica (cosa che mi ha fatto alterare come non mai), aver tolto l'elemento cardine e più piacevole del giallo da un film giallo non è qualcosa che potrò mai perdonare a Mr Branagh. Resta inoltre un film che non aggiunge assolutamente nulla di dignitoso, tranne un sacco di bellissimi vestiti.

Infine, però, Kenneth Branagh gioca una nuova carta: una rilettura completa di un giallo che non era mai stato adattato al cinema e che non aveva dunque termini di paragone: Halloween party, tradotto in Italia col titolo La strage degli innocenti, perché nessuno negli anni Settanta in Italia conosceva o festeggiava Halloween o Samhain, figuriamoci a fine anni Quaranta, quando il film si ambienta.

In Assassinio sul Nilo, Poirot dice a un personaggio che intende ritirarsi a coltivare zucche, dopo la fine dell'avventura egiziana. Avevo dunque creduto che il terzo adattamento sarebbe stato quello di L'assassinio di Roger Ackroid, nel quale in effetti troviamo un Poirot in pensione che coltiva zucche con scarso successo, salvo poi rivestire i panni del detective al bisogno. In questo Assassinio a Venezia, ci ritroviamo di fronte a un Poirot che sembra in pensione a coltivare l'orto, ma a Venezia (il che è proprio insolito) e la location non sembra mai avere un senso nella storia perché non svolge nessun ruolo cruciale per la trama. Branagh sarebbe potuto restare in Inghilterra, ma si vede che filmare i canali e le vedute aeree di Venezia era un capriccio da soddisfare a ogni costo e non ho nulla da dire: le riprese, la fotografia e le scenografie sono assolutamente stupende, così come il palazzo decadente in cui si ambienta la vicenda. Capriccio che cozza terribilmente con la rappresentazione di un festeggiamento della festa di Halloween nella Venezia del 1947, con tanto di bambini mascherati con costumi un po' troppo moderni e di bandierine americane appese per le strade, che mi hanno fatto imbestialire per la loro inverosomiglianza, anche se non tanto quanto la battuta che il personaggio di Ariadne Oliver rivolge a Poirot dicendogli che è per merito di loro americani se...segue qualcosa che non ricordo. Peccato che loro siano inglesi, entrambi. Inglesi e non americani.

Insomma, Poirot si è ritirato e ha una guardia del corpo (Scamarcio) che allontana gli aspiranti clienti, finché un giorno non è la scrittrice Ariadne Oliver (Tina Fey, che traspone il suo personaggio in tutto e per tutto da Only murders in the buildings, cancellando completamente ogni ricordo della vana Ariadne che ci conservavamo) a cercarlo per proporgli un caso: la medium Joyce Reynolds (Michelle Yeoh) è un'impostora o ha davvero capacità medianiche?

A questo punto è necessario raccontare un briciolo di trama del libro per far comprendere le differenze col film, senza addentrarsi nel modo in cui proseguono le trame di entrambi, solo per contestualizzare gli eventi.

Nel romanzo originale Ariadne Oliver presenzia a un party per bambini dell'età di 11 anni o più a casa della signora Rowena Drake, insieme a una sua amica della quale è ospite nel paesino di Woodleigh Common. Durante questa festicciola di Halloween, una bambina, Joyce Reynolds dichiara di aver visto tempo prima un omicidio, anche se allora non aveva capito di cosa si trattasse. Prima della fine della festa la bambina viene trovata assassinata e la signora Oliver corre a chiedere l'aiuto di Poirot, che subito riconosce il movente dell'omicidio nella dichiarazione che la vittima aveva rilasciato. Il detective inizia le sue ricerche ricercando il caro sovrintendente Spence di Fermate il boia, adesso in pensione ma in grado di raccontargli che Joyce poteva aver visto l'omicidio di quattro persone, tra cui la zia della signora Drake, la cui ragazza alla pari, Olga Seminoff, era scomparsa misteriosamente poco dopo la morte della padrona, e un impiegato in uno studio legale, Leslie Ferrier.

Ecco. In comune con l'originale c'è che la casa in cui si ambienta, nell'arco di una notte tempestosa che li blocca dentro, appartiene a Rowena Drake. Anche il motivo scatenante il delitto è simile, ma sfumerà e resterà un po' dimenticato e non così centrale come nel romanzo.

In questa casa che si dice essere infestata (come tutte le case di Venezia, secondo gli sceneggiatori) la signora Drake (Kelly Reilly) organizza prima una festa di Halloween per bambini e a seguire una seduta spiritica in cui la medium Joyce Reynolds deve contattare Alicia Drake, figlia dell'ospite, morta l'anno prima. Tra i presenti anche Olga Seminoff, governante nella casa e per nulla scomparsa, e il dottor Leslie Ferrier (Jamie Dornan), che è evidentemente risuscitato rispetto al libro e ha cambiato mestiere.

Una cosa che trovo curiosa è che abbiano reso madre la signora Drake in entrambi gli adattamenti, questo e quello della serie televisiva, quando nel libro non ha invece figli.

Di fatto resta solo una vaga traccia: un omicidio avviene in casa di una tale signora Drake e dopo un fatto ben preciso nella notte di Halloween. Fine. Appurato ormai che la storia è del tutto diversa, come ci si aspettava del resto dal trailer, ed esaurite le lamentele sulle storpiature compiute ai danni dell'(ormai non più) adorabile signora Oliver e della Venezia degli anni Quaranta, posso passare a valutare quanto ha di buono questo film.

Una volta riuscita ad accettare (quasi) che la storia non è la stessa, mi sono ritrovata ad apprezzare in primis la parte tecnica ed estetica del film, che ha riprese, scenografie e fotografia veramente belle, riuscendo a rendere luminose e chiare anche le scene ambientate nel palazzo infestato, quando i personaggi dovrebbero ritrovarsi in una relativa tenebra. Per quanto inutili anche le scene veneziane sono molto gradevoli da vedere.

Inoltre ho trovato il film ben recitato. Non ci possiamo certo lamentare del cast: metà di quello di Belfast (Dornan e Jude Hill, il cui personaggio porta il nome del fratello di Joyce Reynolds nel libro, ma è figlio del dottore), Yeoh, Reilly, Fey, Branagh. Michelle Yeoh non ha vinto un Oscar a caso.

Riguardo la storia, tutto sommato l'ho trovata funzionante: gli indizi sono disseminati nella storia e Poirot, per lo meno, stavolta interroga gli altri personaggi e conduce delle indagini. Sì, la soluzione arriva abbastanza velocemente e caoticamente, ma ormai lo spettatore poteva già sospettare qualcosa, compresa la spiegazione al perché il nostro belga vedesse strane apparizioni. La componente soprannaturale non mi è dispiaciuta: non fa veramente paura e introduce un tema caro alla Christie, sebbene non presente nel romanzo Halloween party. I testi della giallista fanno spesso riferimento a sedute spiritiche (sia in romanzi -Un messaggio dagli spiriti- sia in racconti -L'ultima seduta spiritica che per un dettaglio mi era subito tornata alla mente durante la visione-) e a elementi soprannaturali inquietanti (La bambola della sarta è da brividi). E questi sono solo alcuni esempi.

La verità è che aver stravolto l'opera, pur con tutti i suoi difetti e con le cose che mi procurano rabbia, ha portato un contributo originale, di fatto dando un senso a questa rivisitazione, cosa che non era stata per i due precedenti che non portavano nulla di nuovo e rimanevano insipidi.

Dunque?

Cosa ho odiato: aver stravolto Ariadne Oliver è qualcosa che non perdonerò mai; aver reso Venezia assolutamente inutile, ancorché bella, e invasa di festeggiatori anzitempo di Halloween pure.

Cosa mi è piaciuto: il giallo funziona e, per lo meno, è un giallo; regia, recitazione, fotografia, scenografie sono validissime; la componente soprannaturale ci stava.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐

venerdì 15 settembre 2023

Il viaggio dell'eroe dal Senegal all'Italia: Io Capitano di Matteo Garrone

 Un tema come quello del viaggio si è prestato, si presta e sempre si presterà a molte varianti e molte interpretazioni. Il viaggio forma, allarga i confini della mente, conduce verso luoghi di dannazione o più spesso salvifici, ma in ogni caso incide per sempre qualcosa nell'anima di chi lo compie e lo trasforma per sempre. E il viaggio che Matteo Garrone racconta in questo suo ultimo film, Io capitano, acclamato alla Mostra del cinema di Venezia, ricalca tutti i tòpoi del viaggio dell'eroe. 

La rotta passante per Mali, Niger e Libia che compiono i due protagonisti

L'eroe di questa vicenda è un ragazzo di sedici anni senegalese che parte col cugino per il viaggio, quel viaggio, quello verso l'Europa la speranza di una vita migliore, il successo, magari la fama (la stessa che vede da casa sua attraverso i social, prima di partire) che fa sognare i ragazzi in ogni angolo del mondo.

Il film si apre in un'atmosfera distesa e di festa: Seydou vive con sua madre e le sue sorelle in Senegal, ma vorrebbe andarsene col cugino Moussa, col quale condivide l'aspirazione di diventare un'artista musicale, in Europa per inseguire il loro sogno, infatti i due scrivono e cantano insieme.

Lo diresti il classico sogno americano, peccato che loro siano nati dalla parte sbagliata del mondo e, dunque, questi sono sogni che non possono permettersi. Di nascosto dalle loro madri, però, i due ragazzi, circa sedicenni, lavorano per sei mesi e mettono da parte una cifra che credono sia sufficiente a tentare il viaggio, malgrado qualcuno glielo sconsigli per via della durezza e dei pericoli. Forse sottostimando il rischio e ancora piuttosto naive, soprattutto Seydou, i due cugini comunque partono.

Garrone ci introduce di botto, con un passaggio secco dall'immagine idealizzata e romantica di avventura che avevano Seydou e Moussa (con tanto di canzone on the road che accompagna il fuoristrada nel deserto) alla cruda realtà, al tema del film: le difficoltà, le ingiustizie, la barbarità della traversata in una delle rotte dei migranti. Ribalta la prospettiva che normalmente in Europa abbiamo del fenomeno (l'arrivo di masse di profughi sulle coste mediterranee) per mostrarcelo con gli occhi di chi il viaggio lo compie. Infatti il viaggio e il film si concludono alle porte dell'Unione Europea, senza mostrare cosa accade dopo. La Sicilia nel film rappresenta la soglia, oltre la quale non ci sono più uomini pronti a sparare su altri uomini. Dietro di loro la loro vita non vale nulla, possono essere uccisi o feriti impunemente; davanti a loro, invece, la vita umana ha qualche valore (non lo stesso della nostra, poiché ancora uno non vale uno, ancora sussistono delle discriminazioni e capita che possano essere aggrediti e considerati di valore inferiore, ma nessun governo EU può negargli i diritti fondamentali - almeno nominalmente). Il rischio di morire diminuisce. La porta d'ingresso per l'Europa è già salvezza.

Il continuo salasso imposto dalle autorità dei vari paesi per lasciar passare anziché bloccare i migranti in carcere; il denaro che non basta mai perché te lo portano via in ogni modo; la difficoltà di ottenere dei visti legittimi (problema radicato nei paesi del continente africano e che rappresenta, oltre a un'ingiustizia che differenzia i suoi abitanti da quelli di altri continenti, la causa principale di abuso di potere degli stati africani sui migranti che circolano sul loro suolo); l'incontro con approfittatori e truffatori spregiudicati che promettono ma non mantengono; la traversata del deserto Sahara, i predoni militari, le carceri libiche e le torture perpetrate al loro interno; i morti: tutto l'orrore della tratta Mali-Niger-Libia Garrone ce lo racconta e, anche se fa soffrire il suo pubblico più di una volta, ci va anche abbastanza piano. Pur non spettacolarizzando l'orrore, il messaggio che doveva passare passa. 

La proiezione a cui ho assistito, al cinema Fiorella di Firenze, si concludeva con un saluto al pubblico del regista e dei due coprotagonisti, freschi di Leone d'Argento (per la regia) e di Premio Marcello Mastroianni a Seydou Sarr. Il caso (o quantomeno così ha spergiurato il regista) ha voluto che in sala ci fosse anche un giovane proveniente dal Gambia, che Garrone ha individuato tra gli astanti in piedi e a cui ha domandato se avesse fatto il viaggio e se quello che il film aveva mostrato corrispondesse alla realtà (uno stress test, insomma). Il ragazzo ha ammesso di aver compiuto il viaggio una volta e che ha trascorso la proiezione a piangere, poiché quello a cui noi abbiamo assistito come film e che ci aveva comunque strappato non poche lacrime, per lui era la rievocazione di quanto aveva passato in precedenza.

Vorrei avvertire gli stomaci deboli di astenersi dalla visione, ma in tutta onestà non posso. Credo che questo sia un film che va visto e non solo perché avere contezza di quello che questa gente passa nella traversata è essenziale a maturare un'empatia nei confronti nel tanto disprezzato (dalla politica populista) immigrato e dunque a rileggere sotto una diversa ottica il fenomeno, ma anche perché è un film di una bellezza e di una poetica rara. Questa pellicola non è un'accozzaglia di scene patetiche. Questo è un film scritto come dio comanda, con la profondità di una storia di formazione all'interno della denuncia che intende muovere. Ha più livelli di profondità e di lettura che gli conferiscono una completezza e una struttura rigorosa. 

La scrittura a più mani di Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri è stata tratta da alcune storie vere, tra cui quella di un migrante, attualmente magazziniere in Belgio, che si è fatto sei mesi di carcere come scafista e che non ha potuto partecipare alla Mostra di Venezia, come ci ha raccontato Garrone, perché la sua posizione non è stata regolarizzata. Tra i nomi di ragazzi che hanno compiuto il viaggio e la cui storia ha ispirato il film ci sono: Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke, Siaka Doumbia. Riconoscibile, inoltre, il contributo di Ceccherini, soprattutto nella prima parte del film e in tutti i momenti di alleggerimento della storia.

Garrone fa sentire la sua mano in molte scene: ci sono molti momenti onirici, frutto dell'immaginazione di un Seydou confuso dalla disidratazione, tra cui quella bellissima in cui immagina di tornare dal carcere libico in volo dalla madre e chiede a uno spirito di farle sapere che sta bene. Spezzacuore. Spezzacuore come il saluto che si danno Seydou e un altro personaggio cruciale del film, che funge da mentore e aiutante del nostro eroe. Spezzacuore come la scena in cui deve salutare un'altra compagna di viaggio, che rivede in una delle sue visioni, il cui spezzone era già circolato in fase di promozione all'interno del trailer.


Ho trovato bellissime altre due scene. All'inizio del film Seydou e Moussa cercano di propiziarsi gli antenati per facilitare il viaggio sotto un albero che mi ha ricordato l'albero degli impiccati di Pinocchio. Garrone stesso ammette che c'è più di qualche riferimento alla sua penultima opera in questo film: i due cugini come Pinocchio e Lucignolo partono alla ricerca del Paese dei Balocchi, salvo poi scontrarsi con la realtà; successivamente si assiste a una grande maturazione di Pinocchio, che impara a non essere egoista, a prendersi cura del padre.

Durante la traversata in barca, inoltre, si trovano a passare davanti a delle piattaforme petrolifere illuminate in mezzo al Mediterraneo e in questa scena trovo che il lavoro fotografico di Paolo Carnera sia stato sublime.

Il viaggio in barca è un po' il terzo atto del viaggio del nostro Seydou, la sua prova finale in cui dimostra di non essere più il ragazzo ingenuo che pensava che tutto sommato il viaggio sarebbe stato alla sua portata, quando ancora era nel suo luogo sicuro. Ormai nel suo atto centrale il nostro eroe si è scontrato con la realtà di questo viaggio, sa chi sono i suoi nemici, sa che nessuno può aiutarlo tranne chi gli è più immediatamente vicino in quella prova finale, ma -meravigliosamente- non si è perso. Seydou ha mantenuto la sua anima intatta, pura, durante tutte le traversie e, ormai molto più forte, porta a compimento l'ultimo test.

La scrittura e l'eccellente prova di Seydou Sarr hanno saputo restituire un personaggio molto reale, sensibile, dolcissimo, coraggioso, fragile e allo stesso tempo resiliente; un'eroe indimenticabile. Un plauso va all'interpretazione di entrambi i giovani senegalesi (Sarr e Moustapha Fall), che ci hanno raccontato in sala i loro provini e hanno ammesso di essere alla prima esperienza come attori.

Infine concludo con una considerazione sul ritmo del film: non oscilla mai, avanza lento e inesorabile, senza perdersi in niente di superfluo. Le scene sono tutte essenziali e il film risulta così asciutto, non prolisso. Riesce a contenersi in due ore secche, che non si fanno mai sentire, malgrado lo sforzo aggiuntivo di vederlo in lingua originale (misto di wolof, la lingua senegalese, e francese) con i sottotitoli.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐⭐ Il film mi ha profondamente commossa in più di una scena e mi ha messo i brividi per molte altre. Ha una grande profondità di scrittura, una pulizia di regia e una potenza inarrivabili. Semplicemente bellissimo

lunedì 4 settembre 2023

La bomba Oppenheimer

 Christopher Nolan torna dietro la macchina da presa, rigorosamente girando tutto senza effetti digitali, e fa di nuovo parlare di sé. Questa volta fa di Cilian Murphy, comparso in ben altri sei film del regista, il suo protagonista: Robert Oppenheimer.

Il film, forse anche grazie al fenomeno del Barbienheimer, ha raggiunto alla data odierna un incasso mondiale di circa 850 milioni di dollari.

L'ultimo film del regista, dalla durata di ben tre ore, è davvero il suo miglior film di sempre, come qualcuno dice?


Prima di tutto, che genere di film è Oppenheimer?

Dal momento che racconta una parte della vita del fisico che ha inventato la bomba atomica, passando alla storia come il Distruttore di mondi, verrebbe da dire che si tratta di un biopic, ma per l'impostazione narrativa, che non segue pedissequamente l'ordine cronologico degli eventi e che presenta un'intera parte in cui fisicamente il protagonista è assente, a me ha dato un'impressione diversa.

Chi vorrebbe giustificare la propria vita?

Questa frase (o con parole simili, non le ricordo con assoluta esattezza) è ripetuta almeno due volte nel corso della pellicola. Di fatto la storia racconta, anzi le storie raccontano questo.

I filoni, infatti, sono due: 

  1. quello, battezzato nel film Fusione, che racconta gli studi, le conoscenze accademiche, le ricerche, la vita privata di Oppenheimer, il progetto Manhattan, ovvero il programma scientifico, condotto principalmente a Los Alamos, che portò alla realizzazione della prima bomba nucleare, sperimentata col celebre Trinity test, e il "processo" a Oppenheimer sulle sue convinzioni politiche per revocargli l'autorizzazione a lavorare sull'atomica. Le posizioni del fisico dopo la creazione della bomba mutarono sensibilmente e negli anni della Guerra Fredda avversò l'ulteriore avanzamento nel campo atomico e la bomba a idrogeno, fattore che gli causò, insieme alle sue amicizie e relazioni con ex-comunisti o presunti tali, l'accusa di filo-comunismo, che negli USA era considerato senza dubbio un crimine infinitamente peggiore di aver creato uno strumento di distruzione che provocò in Giappone centinaia di migliaia di morti.
  2. quello (il capitolo chiamato Fissione) che riguarda il personaggio interpretato da Robert Downey Jr. (che a mio modesto parere ho trovato superiore a Murphy, che non ho visto svettare sopra le sue abituali performance, sebbene egregie), ovvero Lewis Strauss, che ebbe molti contatti lavorativi con Oppenheimer, in quanto presidente della Commissione per l'energia atomica (AEC) degli Stati Uniti. Il film segue infatti un'udienza del Senato degli Stati Uniti sulla nomina di Strauss come Segretario al Commercio (grosso modo il nostro Ministro dell'Economia).
Il quid del film di Nolan, che per argomento e spessore del racconto storico si ricollega idealmente (per lo meno nella mia zucca) a Dunkirk, che però parlava molto attraverso immagini e musica e dunque gli è anche opposto, è l'intreccio dei due racconti. Il primo capitolo copre un arco di tempo molto ampio, dal 1926 al 1954, con infine una sbirciatina nel 1963, quando il neo-presidente degli Stati Uniti Johnson gli conferì un premio "per i contributi alla fisica teorica, come insegnante e ideatore e per la leadership del Laboratorio di Los Alamos e del programma di energia atomica durante gli anni critici". Il secondo capitolo si ambienta, invece, in poche ore del giorno dell'udienza di Strauss nel 1959.
La scrittura ottima di questo film, firmata dallo stesso regista, è stato rendere i due capitoli collegati insieme, raccontati in modo dinamico e quasi al limite del thrilling, poiché il collegamento (come uno influenzi l'altro) è svelato verso il finale e ci sono piazzati un paio di colpi di scena, con un crescendo nel ritmo, grazie al montaggio perfetto e che culmina in una chiusura dei due racconti magistrale. In più il sonoro e la colonna sonora hanno lavorato congiuntamente al resto per evidenziare certi momenti della storia o delle introspezioni di Oppenheimer, risultando spesso volutamente ingombranti, elemento realmente percepito della storia. Tecnicamente, dunque, assolutamente perfetto.

Ma ancora non ho risposto, anche se ho argomentato le mie motivazioni, alla prima domanda. Per me quest'ultimo film di Nolan è un film giudiziario. Mentre assistevo alla proiezione, i film più vicini a cui paragonarlo che mi venivano in mente erano Testimone d'accusa di Billy Wilder o Philadelphia di Jonathan Demme (in realtà soprattutto il primo). Di fatto, ci sono ben due pseudo-processi, sebbene nessuno giudiziario e non manca la costruzione thrilling, che è quella che mi ha conquistata.

La seconda domanda è: mi è piaciuto questo film?

Sì, senza dubbio e moltissimo. Lo trovo un film costruito magistralmente, sebbene abbia un avvio piuttosto lento e una durata proibitiva. Tre ore sono claustrofobiche, non mi stancherò mai di dirlo. Tuttavia in questa narrazione non poteva essere altrimenti. Forse si poteva gestire in maniera superiore la parte iniziale (a me un po' ha annoiato tutta la parte su Jean Tatlock e, in generale, l'inizio); ma nessuna scena del film è inutile: tutto occorre all'economia del racconto. La prima parte delinea le relazioni lavorative di Oppenheimer, la sua personalità trascinatrice, ammaliante (anche come dongiovanni) e, soprattutto, gli antefatti politici su cui saranno costruite le accuse che lo condanneranno a restare ai margini della politica atomica statunitense, neutralizzando così uno dei principali e più autorevoli esperti di quel ramo. Anche la vicenda Tatlock getta le basi per comprendere il grande senso di colpa del fisico, che si sentiva così determinante da essere responsabile, tanto nella vicenda Tatlock, quanto nella distruzione di Hiroshima e Nagasaki (tanto che la moglie Kitty glielo deve pure ricordare di darci un taglio). Colgo l'occasione per sottolineare quanto sia stata convincente Emily Blunt, nell'interpretazione che mi è piaciuta di più in assoluto di tutte quelle che le avevo visto finora.
Ritengo, dunque, questo uno dei pochissimi film (gli altri sono La compagnia dell'anello e Il ritorno del re) per cui questa durata è, sebbene abominevole, giustificata. Magari gli si potevano togliere 10-15 minuti, ecco, ma non oltre. Anche le scene delle visioni "atomiche" di Oppenheimer, sebbene non mi siano piaciute, conferiscono al film intimismo, poiché spesso il regista cerca di penetrare la mente dello scienziato e ci rappresenta quanto sia immensa e complessa. Contribuiscono a costruire la tridimensionalità del protagonista, al quale Nolan non risparmia i lati oscuri, quali le mancanze coniugali, l'essere così totalmente assorbito da sé da non aiutare la moglie col figlio piccolo, ma piuttosto allontanando il figlio (qua, però, va valutata anche la mentalità dell'epoca, per cui fare il papà non era esattamente un opzione da considerare).

Riguardo alla pesantezza, accusa mossa al film dal mio fidanzato in primis, che apprezza più il filone Inception-Interstellar-Tenet e la trilogia del Cavaliere Oscuro, ma anche da altri commenti che ho letto sul web, personalmente la rigetto. Potrebbe essere il mio gusto, che ritiene i film incentrati esclusivamente su ottimi dialoghi (sebbene non a livello di quelli che scrivevano negli anni Cinquanta) e senza azione (eppure l'azione sì che mi piace!) i migliori in assoluto, però non mi è proprio parso pesante: è vero, era lento all'inizio, pure per me, e tre ore sono troppe (e forse per qualcuno tre ore di dialoghi sono un incubo), ma è stato sempre interessante e montato così abilmente che anche le scene di dialogo divenivano serrate ed eccitanti.

Il cast ha compreso molti nomi illustri: Rami Maleck e Casey Affleck hanno ruoli piccoli, ma si fanno sentire, ma vanno ricordati anche Kenneth Branagh (Bohr) e Matt Damon (il generale Groves, che era militarmente a capo del progetto Manhattan).

Una postilla sull'esplosione dell'atomica di cui si è molto parlato. Erroneamente ero convinta che avremmo visto esplodere Little Boy, l'ordigno che colpì Hiroshima, ma l'esplosione che ha filmato Nolan è quella nel deserto della Jornada del Muerto in New Mexico, ovvero quella del Trinity test. In ogni caso, anche questa è un capolavoro tecnico, poiché va tenuto bene a mente che non è stata girata in computer grafica, bensì con effetti tradizionali: il risultato è superiore a qualunque CGI e non ho nemmeno visto il film in sala IMAX, preferendo dare il mio contributo al cinema di paese che lo proiettava. Non escludo, però, di ripetere l'esperienza in IMAX.

In conclusione:

Cosa mi è piacuto: regia, sceneggiatura, montaggio, colonna sonora, interpretazioni (tanti punti a Robert Downey Jr., Florence Pugh, Emily Blunt), elementi di thrilling, fotografia ed effetti speciali pazzeschi

Cosa non mi è piaciuto: un po' lenta la parte iniziale, durata da arresto

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 3/4 Probabilmente a livello tecnico il migliore del regista, anche se di pancia non il mio preferito