giovedì 30 maggio 2024

La genesi di Furiosa

 Conosco la saga di Mad Max (opera di George Miller, che l'ha ideata, scritta e diretta per intero) solo per il film del 2015, Mad Max: Fury Road, pellicola durante la quale si incontrano il protagonista Max Rockatansky (con le sembianze di Tom Hardy) e Furiosa, personaggio interpretato da Charlize Theron. Il cattivo del film del 2015, inoltre, è Immortan Joe, ma questi ultimi due personaggi non compaiono nella trilogia che vede Mel Gibson interpretare il Guerriero della strada tra il 1979 e il 1985.

Fury Road mi era piaciuto (e ne scrissi nel blog che tenevo all'epoca), con qualche riserva sulla sua candidatura agli Oscar in qualche categoria (principalmente come miglior film, mentre trovavo calzanti le nomination e le vittorie ー sei ー del comparto tecnico).

Furiosa: a Mad Max Saga è il prequel del film Fury Road e, in senso assoluto, è uno spin off della saga principale, in quanto non compare Max Rockatansky. La protagonista è, infatti, Furiosa, imperatrice nel film del 2015, mentre in questo capitolo la vediamo bambina e assistiamo alla sua crescita, fino a diventare pretoriana. Il film è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes, circa una settimana prima della sua uscita mondiale, mostrando un esordio molto timido al box office del primo week end.


Ho apprezzato molto la struttura e la scrittura di questo film, vera origin story (non come quel troiaio di Cruella), del personaggio che porta adesso il volto di Anya Taylor-Joy.

Il film si divide in cinque capitoli, ognuno dei quali costituisce una pietra miliare della crescita della protagonista, rendendolo di fatto un film di formazione.

Inizia in modo molto dinamico, proiettandoci dapprima nel "Luogo Verde" di cui si parla incessantemente durante tutto Fury Road, in quanto motivo scatenante della dinamica centrale della pellicola, poi immediatamente in mezzo all'azione. Dei predoni scoprono il Luogo Verde, una delle poche oasi ricche di risorse in mezzo a un deserto dove scarseggiano acqua, cibo (insieme al carburante le principali merci di queste Terre Desolate), e rapiscono Furiosa, per portarla dal loro padrone, Dementus (Chris Hemsworth). Questo rapimento, le sue immediate conseguenze e il periodo trascorso prigioniera presso un leader violento, sadico, ma anche disorganizzato, tanto da pensare di sfidare Immortan Joe, comportano un traumatico cambiamento di vita per la ragazzina, interpretata da una giovane Alyla Browne. 

Se con Dementus apprenderà la violenza e gli stratagemmi del capo nomade, nel corso della sua crescita incontrerà altri personaggi, che le insegneranno la meccanica e il combattimento su strada, rendendola la macchina da guerra che ci ha affascinato nel 2015. Scopriremo l'origine delle sue scelte: il potente desiderio di vendetta, che la indurrà a ritardare il ritorno al Luogo Verde e a unirsi a Immortan Joe, leader carismatico e capace, a cui i Figli della Guerra sono fanaticamente votati.

Il film mi è piaciuto molto, a partire da ciò che, a suo tempo, avevo gradito meno in Mad Max: Fury Road, ossia la sceneggiatura. La storia mi è sembrata ben strutturata e coerente: semplice, ma efficace nel raccontare, mostrandoci ogni passaggio del lungo cammino di trasformazione di Furiosa, da bambina innocente, per quanto ben addestrata e fiera, a guerriera determinata e intelligente.

Mi è piaciuta la scrittura dei personaggi: in primis Furiosa, che partiva già da una solida base, ma non era così scontato costruirgli un background credibile e non melenso. Il personaggio è forte e non presenta la classica "crisi alla Rey" che spesso addossano alla protagonista femminile, la comunissima sequenza del mi-hanno-abbandonata-non-so-chi-sono. Furiosa non viene abbandonata, per lei la madre combatte e pianta nella figlia il seme che porterà sempre dentro di sé: il ricordo del luogo da cui proviene, a cui appartiene e che la definisce come essere vivente. La sua educazione iniziale la predispone a essere un soldato; ciò che le capita lungo la via consolidano questa inclinazione, sia naturale, sia acquisita, e la rendono sempre più forte, aggiungendo strati di corteccia a un legno già resistente. Raggiunto l'apice di dolore, il personaggio non si abbandona alla disperazione, bensì al desiderio di vendetta. Mi sono piaciute le due attrici che hanno recitato la parte di Furiosa: Taylor-Joy impeccabile, ma anche l'attrice bambina ha avuto un discreto minutaggio, che ha gestito molto bene.

Mi è piaciuto Dementus, pazzo, lunatico, affabulatore, ipocrita, sconclusionato e crudele. Contribuisce più di chiunque altro a rendere Furiosa ciò che è, involontariamente, però le è anche, in qualche modo, affezionato, rivedendosi in lei. Mi è piaciuta anche la recitazione di Hemsworth, imbruttito dal trucco, ma anche convinto del personaggio, diametralmente opposto al Thor a cui ci ha abituato Casa Marvel (anche se non del tutto, dopo la deriva presa da Taika Waititi).

Mi è piaciuto Jack (Tom Burke), unico personaggio maschile positivo del film, e mi è piaciuto il suo rapporto con Furiosa, in particolare il modo non didascalico, ma estremamente efficace con cui è stato raccontato dal regista.

La regia mi è piaciuta molto: il film è pulito nel racconto e nella messa in scena; è essenziale. Quasi ogni minuto è indispensabile, accresce la pellicola, aggiunge qualcosa alla storia o ai personaggi e questo non era scontato in un'opera di due ore e mezza ー durata che temevo, ma che non si è fatta sentire. Le scene d'azione sono ordinate, quasi troppo poco concitate, con sequenze quasi coreografate, come avevo osservato in Fury Road. Tornano i combattimenti su strada, i saltellanti Figli di Dio e mezzi di trasporto che si rivelano armi mortali: emozionante.

Il comparto visivo dà spettacolo, con una fotografia luminosa e brillante, trucco e costumi validi; mi è sembrato più sottotono il sonoro, ma potrebbe essere dovuto alla piccola sala in cui l'ho visto...la prima volta. In effetti meriterebbe una seconda visione in una sala IMAX.

Giudizio: ⭐⭐⭐⭐ 1/2

giovedì 16 maggio 2024

Cattiverie a domicilio: una commedia deliziosa

 Un film delizioso e tratto da una storia vera (un caso di cronaca relativamente noto, capitato in Inghilterra negli anni Venti del secolo scorso) è Cattiverie a domicilio di Thea Sharrock, sceneggiato da Jonny Sweet.


A Littlehampton iniziano ad arrivare una serie di lettere infamanti a Edith Swan (una spettacolare Olivia Colman) e la colpa è assegnata immediatamente all'unica donna del paese che non vive di timorati principi. Rose Gooding (Jessie Buckley), infatti, è forestiera (irlandese), vive con la figlia e un uomo (Malachi Kirby) che non è suo marito e ha un linguaggio sboccato e franco che le valgono subito dei nemici nel periodo e nel quartiere in cui vive.

Rose è arrestata e la polizia non nutre dubbi sulla sua colpevolezza, malgrado le incongruenze che tenta di far rilevare la "donna poliziotto" (naturalmente vista con sospetto e non ancora accettata come figura di livello pari al poliziotto uomo nel 1922) Gladys Moss (Anjana Vasan). Una prova a favore di Rose sarebbe la calligrafia, che sfortunatamente al tempo non era accettata nei tribunali; tuttavia questa e altre particolarità del caso valgono affinché un gruppo di donne del paese, compresa Gladys, credano a Rose.

Rose esce su cauzione e in quel momento un numero molto maggiore di missive piove su Littlehampton, che sale alla ribalta della cronaca nazionale. Si scoprirà chi è a mandare le lettere?

Io la soluzione l'avevo indovinata abbastanza rapidamente; è stato così anche per voi?

La commedia è molto carina, resa interessante dal punto di vista psicologico sui vari personaggi, soprattutto su Edith, la zitella eroica che sopporta stoicamente le parole cattive che riceve, sopraffatta dalla religione e da un padre padrone (Timothy Spall). Anche Rose ha una sua storia alle spalle, che non sarà mai del tutto chiarita. E le storie di entrambe riveleranno segreti nascosti.

Attraverso l'opera di Gladys, l'indagine prenderà le pieghe del giallo, ma non solo. Il suo arco narrativo non approfondisce solo la storia familiare della donna (figlia di poliziotto e dunque desiderosa di dimostrarsene all'altezza) ma consente anche di parlare di stereotipi di genere. Questo aspetto, in effetti, è analizzato anche grazie a Rose, a Edith e ad altre delle donne che compaiono nella storia, per esempio Ann, che spesso è giudicata solo per come appare.

Giudizio: ⭐⭐⭐ 3/4 una commedia leggera, ma non troppo e molto divertente nella sua risoluzione

mercoledì 1 maggio 2024

Addio, Luca: the Challengers

 Non ho ancora visto l'acclamato Chiamami col tuo nome, ma dopo Bones and All e, adesso, The Challengers, penso di poter chiudere col regista siciliano.

Perché? Perché The Challengers è uno dei film più noiosi che abbia visto negli ultimi tempi (o forse nella mia vita).


La storia, a dirla tutta, sarebbe stata molto interessante, come sembrava dai trailer e dalle interviste (per esempio quella di Fabio Fazio ai tre protagonisti del film): un triangolo amoroso, dove il tennis è metafora di dinamiche relazionali. Gli stessi personaggi, in particolare Patrick, che del trio è quello più bilanciato, se lo dicono fra di sé in battute come

"Ma voi parlate sempre di tennis." (voce della verità, in risposta alla battuta di Zendaya "Adesso stiamo parlando di tennis").

oppure

"Stiamo parlando di tennis?"

Succede, infatti, che i due giovanissimi amici e compagni di accademia tennistica, Patrick (Josh O'Connor) e Art (Mike Faist) vincono in coppia un torneo juniores, al quale incontrano anche la carismatica, talentuosa e bellissima Tashi (Zendaya). Qua si incastra la famosa scena del trailer, col bacio a tre, metafora di tutto ciò che sarà con la ragazza e tra di sé. Entrambi pazzi di lei, alla partita che li vede avversari il giorno successivo si sfidano per averne il numero e uscirci insieme.

Da qui partono relazioni, gelosie, invidie sportive e non, ripicche, scorrettezze di vario genere, scontri fuori e dentro ai campi che durano anni, fino a che Patrick e Art si ritrovano di nuovo, tredici anni dopo, uno di fronte all'altro, in un challengers, un torneo di bassa categoria (così ho capito). Al primo servono i soldi che ricaverebbe dalla vincita, al secondo un'iniezione di fiducia perché, ormai a fine carriera come professionista, ma senza aver vinto l'US Open (non che io sappia cosa sia, più di quanto sapevo cosa fosse il challenger). Anche in questo caso, non è solo una partita di tennis.

Ho trovato la costruzione della trama francamente interessante, col montaggio che salta dal presente a flashback situati in anni diversi, aggiungendo sempre un pezzettino di storia, svelandoci i retroscena un po' alla volta.

L'altro aspetto che ho trovato riuscito sono i personaggi, molto ben definiti e sfaccettati, anche loro da scoprire strato per strato (la similitudine rimanda alla cipolla di Shrek), via via che il triangolo ci viene rivelato da tutte le angolazioni. Tashi, dopo l'infortunio che le ha distrutto la carriera, diviene allenatrice e continua a vivere di tennis; è una macchina, che vede solo l'obbiettivo davanti a sé, a costo di passare su qualunque cosa. Ma è completamente senza sentimenti fino in fondo? Sicuramente è il suo personaggio la vera protagonista, il perno su cui ruota il triangolo, ma anche il film stesso.

Patrick è scanzonato, pieno di risorse, sembra il più sincero fra gli elementi della triade, anche se, caro Guadagnino, quindici scene in meno in cui far fare a O'Connor il suo adorabile mezzo sorriso, secondo me si potevano girare. Art, anche lui apparentemente un robot sul campo di tennis, è il personaggio più difficile da inquadrare (almeno per me) e che forse subisce maggiormente il passaggio dalla fine dell'adolescenza all'età adulta: lo spettatore resta indeciso se sia mai stato manipolatore o se, invece, sia sempre stato fragile.

Finiti gli aspetti del film che ho trovato positivi, oltre al glamour di abiti e acconciature, principalmente di Zendaya, resta da spiegare perché non mi sia piaciuto.

La prima cosa che ho da osservare è che usare un lunghissimo rallenty per lo spostamento dei personaggi che escono dallo spogliatoio o che si allontanano dopo una discussione non lo trovo per niente sensato. Su cosa dovremmo soffermare l'attenzione? Sulle graziose movenze degli abiti di Tashi? In nessuno dei due casi che ho in mente mi serve per sottolineare delle emozioni o qualsiasi altra cosa e, dunque, è superfluo esercizio di stile (naturalmente, per me).

In generale, poi, le scene sono inutilmente lente nelle partite di tennis, che, per me, risultano la parte peggiore del film. Potrei essere di parte, perché non mi piace il tennis, ma in Una famiglia vincente (per fare un altro esempio) gli scontri mi erano sembrati emozionanti. Il tennis a rallentatore, invece, mi è parsa proprio una pessima idea, così come inquadrare per interi minuti gli spettatori che muovono la testa a destra e sinistra nel seguire il match: carino e coreografico, la prima volta che lo fai, nella partita ambientata nel "presente", ma quando scene intere sono dedicate a Art e Patrick che guardano Tashi, mentre questa è inquadrata unicamente in modo frontale mentre tira avanti a sé la racchetta, la cosa si fa pesantuccia. Meglio il cambio di piani sui protagonisti, che arrivano a essere quasi primissimi, alla Sergio Leone. Di buono, in effetti, c'è stato il gran numero di angolazioni da cui si poteva vedere il gioco nelle partite.

Ma gli incontri non sono la sola cosa noiosa: altre scene sono così tanto prolisse, come quella della festa in cui i nostri eroi si incontrano. In generale ho avvertito una certa claustrofobia da "quand'è che posso fuggire da questa sala" durante la visione. Il film, di due ore e undici (quindi, già parecchio per un film del genere, ossia, di fatto, su una love story) non dico che poteva durare un'ora in meno (dentro di me lo penso), ma almeno 40 minuti sicuramente.

In conclusione,

Cosa mi è piaciuto: trama, personaggi, recitazione, montaggio

Cosa non mi è piaciuto: regia, noioso per la gran parte, lunghissimo

Giudizio: ⭐⭐